ANALISI Che ci facciamo in Niger?
IL FATTO
A dicembre l’Italia ha annunciato che rafforzerà la sua presenza militare in Africa: in Libia il contingente italiano, che assiste le milizie fedeli ad Al Sarraj. dovrebbe passare da 300 a 400 uomini e da 100 a 130 mezzi; 60 uomini e un mezzo aereo andranno in Tunisia per attività di addestramento e assistenza nella lotta contro il terrorismo e nel controllo delle frontiere; mentre 470 uomini (con una presenza media di 230 unità), 130 mezzi terrestri e 2 aerei saranno dislocati in Niger (AnalisiDifesa100118). Su quest’ultimo punto Gentiloni dichiara che ‘ciò avverrà su richiesta del governo nigerino, che ho incontrato 10 volte nell’ultimo anno, e che è sacrosanto per l’interesse nazionale consolidare la capacità di controllo sul proprio territorio del Niger, paese di transito per traffici rilevanti di esseri umani, soprattutto nella zona di Agadez’ e dove, come in tutto il Sahel, ‘c’è una ‘particolare presenza di gruppi jihadisti’ (conferenza stampa di fine anno). Sempre secondo AnalisiDifesa301217 però con numeri così piccoli è improbabile che i soldati italiani possano essere schierati nel Campo di Fort Madama (porta di accesso alla Libia da Agadez sotto controllo francese) come invece ipotizzano altri analisti e potrebbero concentrarsi quindi nella capitale Niamey.
IL CONTESTO
1. Il ‘corridoio commerciale’ del Sahel L’Africa occidentale è da sempre zona di traffici e di contrabbando. Fino a qualche decennio fa di merci povere: sigarette dai porti atlantici dell’Africa nordoccidentale (Guinea, Guinea Bissau, Nigeria ecc.) attraverso le regioni desertiche del Sahel (Mauritania, Mali, Niger) fino alla costa mediterranea della Libia e dell’Algeria e – in direzione opposta – beni alimentari acquistati a prezzo calmierato e rivenduti con profitto nei paesi di provenienza. Un’attività economica ‘illegale’ (per quanto possa valere la ‘legalità’ in tribù che da secoli vivono nel deserto, spesso di razzie e in società in cui spesso chi è fatto prigioniero diventa schiavo), che integra un’economia fondata su agricoltura, allevamento e turismo e qualche attività estrattiva (oro, uranio). Dai primi anni 2000 la diffusione del jihadismo e la perenne instabilità nella regione hanno favorito la nascita di formazioni – come Al Qaida nel Maghreb Islamico (AQMI) – che al contrabbando e al crimine (sequestro di turisti a scopo di riscatto, vendita di armi, traffico di droga e immigrati o, in alternativa, scorte armate e ‘pedaggi’ imposti ai trafficanti) uniscono spesso la copertura ideologica del fondamentalismo. Secondo Loretta Napoleoni (Mercanti d’uomini. Il traffico di ostaggi e migranti che finanzia il jihadismo, Rizzoli, 2017) la ragione di questo mutamento va ricercata nell’inasprirsi dei controlli USA, all’indomani dell’11 settembre, ai confini col Messico e sulle transazioni finanziarie in dollari, un irrigidimento che avrebbe spinto i narcos latinoamericani a reindirizzare parte dei propri traffici, vendendo la ‘merce’ a trafficanti dell’Africa Occidentale e del Golfo di Guinea pronti a venderla in Europa dopo aver attraversato il deserto.
2. A chi e perché ‘sta a cuore’ il Niger L’Africa occidentale è ancora, in gran parte, una sorta di protettorato francese. Un’analista intelligente come Lucio Caracciolo nel 2013 scriveva ‘E’ la Françafrique, termine divenuto peggiorativo per la penna di François-Xavier Verschave, che la denunciò nel 1998 come organizzazione criminale segreta incistata nelle alte sfere della politica e dell’economia transalpina. Basata sulla corruzione, sui rapporti personali con questo o quel dittatore/padrone (franco)africano, sugli interessi dei “campioni nazionali” dell’industria transalpina, specie nel settore energetico e minerario. Una macchina da soldi, infatti ribattezzata France-à-fric (Francia da soldi) da giornalisti malevoli’. ‘E Parigi – aggiungeva – non rinuncia al ruolo di gendarme’ in questa ‘sua Africa’ (Limesonline170113). Sempre su Limes (11/2017), Andrea De Giorgio ha scritto che ‘se il binomio minaccia terroristica globale-gestione dei flussi migratori funge da pretesto per la crescente militarizzazione del Niger, gli interessi nascosti di alcune potenze mondiali qui impegnate sembrano invece rappresentare mire di natura neocoloniale. Sfruttamento delle risorse locali e creazione di basi militari per il controllo di vasti territori strategici sono i veri pilastri della “corsa al Niger”, una partita diventata negli ultimi mesi decisiva nella ridefinizione delle sfere d’influenza nel Sahel e, più in generale, nell’intera Africa occidentale. La Francia è il primo partner commerciale del Niger, ma al secondo c’è la Cina. Pechino qui, come in altri paesi africani, ha avviato una silenziosa opera di infiltrazione, fondata su due pilastri: assistenza economica e investimenti. In un’intervista a SahelStandard030317 l’ambasciatore cinese ricorda che nel novembre 2016 i cinesi hanno consegnato al Niger un ospedale (il più grande finanziato da Pechino all’estero) e qualche mese dopo quattro edifici scolastici. Nello stesso periodo sono arrivate 5547 tonnellate di riso, 18 équipes mediche, che hanno visitato 4,5 milioni di persone e ne hanno operato 200. Inoltre sono state finanziate opere nel campo della produzione di acqua ed energia e nel settore delle comunicazioni (fibra ottica) e della formazione. Alla fine del 2015 gli investimenti diretti esteri (IDE) cinesi in Niger ammontavano a oltre 4mila miliardi di dollari, con oltre 30 imprese attive nel settore dell’estrazione di petrolio e uranio, mentre con contratti firmati per quasi 7mila miliardi Pechino è leader nel settore dei lavori pubblici. Nella regione si registra anche un crescente attivismo della Germania. Nell’ottobre 2016 per la prima volta Angela Merkel visitava Mali e Niger, gli investimenti in uomini e mezzi inviati nel Sahel aumentano, tanto da far ipotizzare ad alcuni analisti che qui si giochino anche i futuri equilibri di potere nell’UE.
3. La presenza militare straniera Nel Sahel la Francia schiera i 4mila soldati dell’operazione Barkhane (agosto 2014), a cui si affiancano l’operazione MINUSMA in Mali (circa 14mila soldati, 1000 tedeschi, addestrati dall’UE e sotto l’egida ONU), e la G5 Sahel Joint Force (Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger, sotto la direzione francese, 500 milioni il costo, di cui l’UE e i paesi africani ne hanno garantito 50 e 50, i gli USA 60, l’Arabia Saudita 100 e 30 gli Emirati Arabi, la Francia solo 8), più numerose missioni bilaterali tra il Niger e altri Stati, ad esempio Enduring Freedom trans Sahara 2007 (800 soldati USA, 100 milioni di dollari per costruire una nuova base aerea vicino ad Agadez). Il contingente italiano dovrebbe rientrare in uno di questi accordi e a esso potrebbero aggiungersi anche soldati tedeschi e forse belgi e spagnoli.
4. La polemica nell’establishment: che ci facciamo? Dietro le baruffe politiche, peraltro in tono minore, sulla spedizione in Niger si cela una discussione non banale tra opinioni diverse nell’establishment capitalistico nazionale. Il governo Gentiloni prepara la missione da tempo, cercando di non dare troppo nell’occhio (varie volte la Difesa l’aveva anche smentita) e la difende, tirando in ballo umanitarismo e interesse nazionale. Dalle parti del centrodestra si ribatte che i soldati italiani in realtà permetteranno alla Francia di disimpegnarsi parzialmente in Niger, pur mantenendo il controllo delle operazioni e dunque senza riconoscere un ruolo all’Italia. La Francia viene accusata anche di non fare nulla per bloccare i convogli dei trafficanti di uomini sia da destra che da sinistra (IlGiornale250717 e Repubblica250717) e non senza qualche ragione. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni nel 2016 417mila persone hanno attraversato il Niger, di cui 300mila hanno raggiunto la Libia, secondo altre fonti sono 336mila. La missione francese, dotata di aerei da caccia e droni, non dovrebbe avere difficoltà a individuare i convogli di camion che attraversano il deserto e bloccarli. Fort Madama, sede di una guarnigione francese di 250 uomini dotata di elicotteri e di una pista di atterraggio per aerei, si trova proprio sulla via che da Agadez conduce in Libia. In modo cinico ma realistico AnalisiDifesa211217 osserva che ‘In fin dei conti per bloccare i flussi migratori illegali l’arma più efficace (e la meno costosa) in mano all’Italia è rappresentata dai respingimenti sulle coste libiche dei migranti soccorsi in mare in cooperazione con la Guardia costiera di Tripoli’.
5. La risposta del Governo Come sempre le vere ragioni delle scelte politiche vanno cercate non sulla stampa nazionalpopolare, ma su quella specializzata. Ancora su Limes11/2017, Mario Giro, viceministro degli Esteri, spiega come dal 2014 al 2016 l’Italia sia passata dal 21esimo al terzo posto nella classifica dei maggiori investitori nel Continente Nero (7,2% degli IDE in Africa contro il 4,9% della Francia) e indica nella Costa D’Avorio uno dei due paesi fondamentali per l’Italia (l’altro è il Kenia) e nella realizzazione della boucle Bolloré, l’anello ferroviario lungo 2700 chilometri, che collegherà appunto la Costa D’Avorio al Togo, passando per il Burkina Faso, il Niger e il Benin, uno degli obiettivi strategici. Quando sapremo se i soldati italiani verranno schierati al confine con la Libia o nella capitale Niamey capiremo meglio se al momento la principale preoccupazione del governo italiano è proteggere i confini o gli investimenti.
6. Migranti? Una fonte di sopravvivenza per molti Per capire l’impatto di queste politiche però bisogna calarle nella realtà concreta. A dispetto di una crescita degli investimenti e talvolta anche del PIL (il FMI prevede che nel 2018-2022 tra i top 20 nel mondo ci saranno 9 paesi dell’Africa subsahariana e che in Mali e Niger il PIL aumenterà tra il 4,7% e il 6,1%), la regione attraversa un periodo di profonda crisi. I sequestri di stranieri hanno affossato il turismo e dopo Fukushima ci sono stati licenziamenti nel settore dell’uranio. Col risultato che trafficanti e fondamentalisti si sono inseriti nel vuoto conseguente. ‘Nel Mali settentrionale e in Niger non ci sono fonti di reddito e di occupazione alternative in grado di competere col contrabbando e il traffico di droga. Il collasso del turismo, parallelo alla crescita dell’industria dei rapimenti ha ulteriormente aggravato la situazione (…) Finché non ci saranno alternative percorribili reprimere il contrabbando non farà che rendere ancor più estranei alle comunità locali i loro Stati’ osservava nel 2012 un rapporto del Carnegie Endowment fro International Peace (testo inglese). Uno studio dell’olandese Clingendael Institute (testo francese) disegna perfino la ‘catena del valore’ del traffico di migranti ad Agadez.
Come si vede si tratta di un giro d’affari di circa 115 milioni di euro nel 2016, divisi tra le seguenti attività: trasporto ad Agadez in autobus, attraversamento del confine (passeurs), gestione dei foyers dove i migranti vengono temporaneamente alloggiati in attesa di ripartire, intermediazione coi camionisti (coxeurs), trasporto in camion verso la Libia, rifornimento di carburante. Dirkou, 15mila abitanti tra Agadez e la Libia, nel 2016 avrebbe guadagnato circa 236mila euro in pedaggi e tasse di soggiorno sui migranti. Ma – come mostra la stessa tabella – tra il 2016 e il 2017 il settore subisce un crollo. Nel 2015 infatti l’UE costituisce un Fondo fiduciario per l’Africa (circa 3 mld di euro), fortemente caldeggiato da Renzi, per convincere i governi locali a bloccare trafficanti e jihadisti e il Niger promulga una legge contro il traffico di migranti con pene severe. ‘Se l’Europa vuole che facciamo il lavoro sporco coi migranti deve mettere mano al portafoglio’ ha chiosato il Ministro degli Interni nigerino Mohamed Bazoum. Detto fatto: l’UE sta pagando e i governi del Sahel fanno il lavoro sporco appunto. Ma è questa la soluzione?
7. Conclusioni. Un fallimento annunciato I fondi europei in teoria dovrebbero finanziare progetti di sviluppo economico in grado di sostituire l’industria dei migranti, ma finora non è andata così. Del resto non c’è da stupirsi, tenuto conto che quei soldii finiscono nelle mani di élites ultracorrotte, che fino a un paio d’anni fa (e forse in parte ancora) facevano affari coi trafficanti che oggi dovrebbero spazzare via e che quelle stesse élites sono anche l’interlocutore a cui rivolgersi per aprire i mercati locali alle imprese europee. Per il futuro dunque è più probabile che quei soldi (presi dalle nostre tasche) servano a oleare le commesse per qualche grande gruppo economico (per quanto riguarda l’Italia in particolare ENI ed ENEL) e a chiudere temporaneamente il rubinetto migratorio verso la Libia, piuttosto che a dare lavoro e condizioni di vita dignitose alle comunità locali, e che quindi crescano ulteriormente le tensioni sociali, col rischio di rendere il radicamento del jihadismo ancor più profondo.
TUNISIA Cosa sta succedendo?
Nel settimo anniversario della sua Primavera il popolo tunisino scende in piazza e subisce una violenta repressione (almeno 6-700 persone arrestate). Le proteste iniziano ai primi dell’anno, quando entrano in vigore gli aumenti introdotti dalla legge finanziaria approvata a dicembre in ossequio ai piani di rientro imposti dal FMI per confermare gli aiuti economici concessi al paese. Crescono i prezzi di caffè, benzina, internet e telefonia (IlFoglio100118), facendo arrabbiare in particolare i giovani, che rappresentano una quota cospicua della popolazione (il 15,5% quelli tra i 15 e i 24 anni, il 35% dei quali disoccupati). Dal 2010 al 2016 il debito pubblico è salito dal 40% al 60%, mentre il dinaro si è svalutato del 40% rispetto al dollaro. La campagna Fech Nestanaou? (Cosa aspettiamo?), lanciata da un gruppo di giovani attivisti e repressa dalla polizia con metodi da vecchio regime, ha raccolto larghe simpatie e ciò si è sommato a ragioni di insoddisfazioni profonde spingendo la popolazione a manifestare. Anche la delusione nei confronti della politica è forte. Nidaa Tounes, il partito che ha raccolto i superstiti del regime di Ben Alì, si era presentato alle elezioni come alfiere della laicità contro gli islamici di Ennahdha, ma dopo il voto ha formato un governo di coalizione proprio con Ennahdha. D’altro canto anche l’elettorato islamico è deluso dalle politiche antisociali promosse dal Governo. I leader delle due formazioni – secondo i sondaggi – sono i personaggi politici più invisi ai tunisini, il 70% dei quali alle prossime elezioni comunali dice che diserterà le urne. Ne parla al quotidiano francese Libération lo studioso di politica araba , di formazione marxista, Gilbert Achcar (traduzione nostra).
INTERVISTA Il miracolo economico promesso non è mai arrivato
di Célian Macé e Hala Kodmani (Libération, 14 gennaio 2018)
Per lo specialista del mondo arabo Gilbert Achcar la rivolta tunisina era ‘prevedibile’. E si colloca come la continuazione di quella del 2011.
Originario del Libano, che ha lasciato nel 1983 per Parigi, Berlino e successivamente Londra, dove è professore di Relazioni Internazionali e Politiche alla School of Oriental and African Studies, Gilbert Achcar osserva i rivolgimenti del mondo arabo da due decenni. L’autore de Le peuple veut (Il popolo vuole, 2013) e di Symptômes morbides (Sintomi patologici, 2017) adotta un approccio marxista alle rivolte del 2011. Secondo lui le attuali proteste ne costituiscono la logica prosecuzione.
Come analizza la nuova rivolta in Tunisia?
Era assolutamente prevedibile. Perché tutti gli ingredienti dell’esplosione del 2010-2011 rimangono. Alcuni fattori, come la disoccupazione giovanile, si sono addirittura aggravati. Negli ultimi due anni abbiamo visto esplosioni localizzate prodursi un po’ ovunque nelle piccole città, in Tunisia e nei paesi vicini. Sono i prodromi di una seconda ondata di proteste nella regione. In Sudan dall’inizio dell’anno assistiamo a un movimento di opposizione di ampiezza senza precedenti. Anche l’Iran sta conoscendo una rivolta sociale. Tutti questi avvenimenti hanno come denominatore comune l’applicazione delle misure raccomandate dal FMI: riduzione della spesa pubblica, tagli agli organici dello Stato, cancellazione dei prezzi calmierati sul carburante e sui prodotti di prima necessità ecc.
Perché invece in Egitto, dove si applicano le stesse misure, tutto tace?
Perché l’Egitto viene da una repressione terribile. Al-Sisi mantiene un clima di terrore. La gente affronta una propaganda catastrofista. Le viene detto che in caso di rivoluzione il paese diventerà come la Siria e la Libia. Ma questa minaccia non può funzionare per sempre e non è impossibile che il popolo egiziano riesca a superare la paralisi. La paura di uno scenario siriano in sé non è un argomento efficace, ma lo diventa di fronte a un potere assai brutale e pronto a commettere un massacro. Che per fortuna non è il caso della Tunisia. Inoltre la disperazione sociale è più forte di qualunque freno. La repressione può soffocare il movimento ma non sarà la soluzione del problema, ritarderà semplicemente l’esplodere delle contraddizioni. Nel 2011 le Primavere Arabe mescolavano rabbia sociale e aspirazioni democratiche. Le rivendicazioni politiche stavolta invece sembrano passare in secondo piano. L’esplosione di una rivolta da sempre ha sia aspetti sociali che politici. Quando il movimento cresce oltre un certo limite infatti diventa inevitabilmente politico. Ma ciò può avvenire in forme diverse. Ai tempi di Ben Alì la protesta mirava al rovesciamento della dittatura. Oggi la disperazione è prima di tutto sociale perché c’è un vuoto politico. La sinistra tunisina ha preso il treno della rivolta in corsa cercando di presentarsi come sua guida, ma la delusione dei giovani nei confronti dei partiti è evidente. L’UGTT (Unione Generale del Lavoro Tunisina) avrebbe potuto giocare un ruolo di supplenza, ma il sindacato non ha svoto la sua funzione di rappresentare un contropotere, anzi, ha cercato un compromesso col Governo. Ciononostante in Tunisia il movimento sindacale è storicamente forte e, a livello degli iscritti, ha una reale autonomia dal potere: un caso unico nella regione. Il problema è che questa forza, invece di essere usata per premere con vigore in direzione di una politica economica strutturalmente diversalo è stata per giocare la carta della concertazione e del compromesso. Col risultato che oggi l’UGTT è stata scavalcata dalla piazza.
Le cose non sono andate abbastanza rapidamente dopo la rivoluzione?
La rivoluzione del 2011è stata una rivoluzione dei giovani… e ha prodotto il presidente più vecchio del mondo (Béji Caid Essebsi ha 91 anni NdR.). Evidentemente c’è qualcosa che non funziona. E aldilà dell’età si tratta di un uomo del vecchio regime, che applica gli stessi metodi e rappresenta gli stessi gruppi di potere del passato. Eliminando Ben Alì i tunisini hanno eliminato solo la punta dell’iceberg. Non facciamoci ingannare: in Tunisia il vecchio regime sta tornando. Non si è voluto vedere altro che una rivoluzione pacifica e riuscita ma qui ci sono sintomi evidenti di una grave malattia. Ad esempio la Tunisia è il paese della regione che ha visto il maggior numero di giovani aderire allo Stato Islamico!
Perché la Tunisia, dopo anni, non riesce a ridurre la disoccupazione?
Perché il FMI rimane il regista delle grandi scelte economiche. Queste già avevano creato le condizioni per l’esplosione del 2011. Il FMI ha pronunciato timidamente il suo mea culpa, ma in sostanza nulla è cambiato. E dal 2011 anzi ci sono state misure di austerità ancor più rigide, di riduzione della spesa pubblica e sostegno al settore privato. L’hanno fatto la Tunisia, l’Egitto, l’Iran. E da queste terapie shock le popolazioni hanno avuto solo lo shock ma non la terapia. Il miracolo economico non è mai arrivato e ciò non poteva che provocare frustrazione e un’esplosione sociale.
Dobbiamo attenderci nuovi contraccolpi nei prossimi mesi?
Ciò che abbiamo chiamato ‘primavera’ nel 2011, immaginandoci un fenomeno passeggero, in realtà è un processo rivoluzionario di lunga durata, con alti e bassi, accelerazioni, scontri, perfino possibili periodi di guerra civile. Nel medio termine non ci sarà stabilità nella regione, finché le politiche economiche e sociali non saranno modificate strutturalmente.
FLAT TAX Mica solo Salvini…
Il centrodestra (e la Lega in in particolare) ne ha fatto uno dei temi centrali della campagna elettorale, ma, andando a scavare, non sono solo i ‘barbari’ difensori della ‘razza bianca’ a proporla. Berlusconi ha raccolto la proposta di Salvini (aliquota unica al 15%), modificandola (aliquota unica sì, ma intorno al 20%). Ma a presentare una proposta analoga c’è il ben più blasonato Istituto Bruno Leoni, in prima fila l’ex consulente economico di D’Alema Nicola Rossi, eletto due volte al Senato nelle liste del PD.
La flat tax della Lega
Abbiamo sintetizzato la proposta della Lega in 3 punti:
- Fino a 35mila euro di reddito aliquota unica al 15% con 3mila euro di deduzione per ogni componente del nucleo familiare (se l’aliquota è del 20% la deduzione sale a 5mila); da 35mila a 50 mila euro la deduzione è solo i familiari a carico; sopra i 50mila euro nessuna deduzione.
- Abolizione del sostituto d’imposta e della ritenuta d’acconto: il lavoratore pagherà l’imposta, se dovuta, direttamente e in soluzione unica a fine anno.
- abolizione di tutte le altre detrazioni e deduzioni
La flat tax dell’IBL
La proposta dell’IBL viene riassunta dagli stessi proponenti in 4 punti:
- Aliquota unica al 25% per tutte le imposte (IRPEF, IRES, IVA, sostitutiva sui redditi finanziari)
- abolizione di IRAP, IMU, TASI, sostituite da un’imposta sui servizi di esclusiva spettanza comunale, non più legata al reddito e al patrimonio del contribuente, ma alla ‘intensità di fruizione’ e alla qualità dei servizi.
- introduzione di un sussidio, il ‘minimo vitale’, differenziato per area geografica, contestuale all’abolizione della ‘vigente congerie di prestazioni assistenziali o prevalentemente assistenziali’.
- ridefinizione delle forme di finanziamento della sanità e di altri servizi: rimane il principio della gratuità ‘per la gran parte dei cittadini’, ma pagheranno ‘i più abbienti’, con la possibilità di ‘rivolgersi al mercato’.
Gli effetti
Per quanto riguarda la proposta della Lega si tratta di una proposta insidiosa, perché per molti contribuenti a basso reddito rappresenterebbe un aumento del reddito e una semplificazione rispetto al meccanismo di anticipazione delle imposte ed eventuale rimborso successivo. Ad esempio un lavoratore dipendente con un reddito annuo di 25mila euro, moglie e un figlio a carico, che col meccanismo attuale pagherebbe circa 3700 euro di IRPEF (per poter calcolare anche le addzionali locali abbiamo preso come città di residenza Roma), con la flat alla Salvini pagherebbe circa 2400 euro (aliquota al 15%) o 2mila (aliquota al 20%). Ma il rovescio della medaglia arriva quando coi redditi molto alti. Infatti lo stesso tipo di contribuente con un reddito di 150mila euro con la flat pagherebbe circa 22mila (15%) o 30mila (20%) euro invece di circa 58mila attuali. L’appeal di questa proposta per milioni di contribuenti a basso reddito è che essi potrebbero barattare una piccola riduzione delle tasse – pochi, maledetti e subito – e una semplificazione delle procedure con nuovi tagli ai servizi pubblici, che colpirebbero in particolare proprio chi non può permettersi di mandare i figli alle scuole private o di farsi curare in clinica. Infatti la riduzione del gettito sarebbe di circa 40 miliardi (per la Lega) e 100 miliardi (per tutti gli altri). In altre parole: lo sgravio c’è ed è diffuso, ma si concentra in particolare sulla minoranza più agiata della popolazione, colpendo i redditi medio-bassi indirettamente attraverso il welfare.
Per quanto invece riguarda la proposta dell’IBL una simulazione l’ha fatta LaVoce.info140717 ed è esemplificata nella tabella qui sotto.
I soldi ‘guadagnati’ e ‘persi’ risultano dall’effetto combinato della riduzione dell’imposta con l’introduzione del ‘minimo vitale’. Nei primi due esempi si vede chiaramente come il guadagno si concentri sul lavoro autonomo e aumenti al crescere del reddito. Il terzo quadro va interpretato se non vogliamo indulgere a interpretazioni troppo ottimistiche. Infatti può apparire meraviglioso che una famiglia con due figli a carico e senza reddito riceva un sussidio dai 18mila ai 25mila euro. Ma bisogna considerare che nella proposta dell’IBL ‘il minimo vitale non è incondizionato’, senza specificare a quali condizioni esso verrebbe erogato (ad es.: per quanto tempo? in cambio di prestazioni? se sì, di che tipo?) e considerando che esso diventerebbe – a quanto pare – l’unico ammortizzatore sociale. Se la proposta di Salvini per certi versi è insidiosa, perché distribuisce gli spiccioli della riforma a una platea diffusa, quella dell’IBL lo è di più perché da una parte viene da una voce più autorevole e trasversale del capitalismo nazionale, dall’altra però non si limita a riformare il fisco, ma contiene in sé una vera e propria ristrutturazione del welfare, con conseguenze pericolose soprattutto per i redditi medio-bassi.
SINDACATO Elezioni IREN: le regole ad capocchiam della rappresentanza sindacale
In IREN, la multiutility del nordovest (più di 6mila dipendenti divisi tra Piemonte, Liguria ed Emilia) da oggi si vota per il rinnovo delle RSU (rappresentanze Sindacali Unitarie) nelle aziende del gruppo, ma il sindacato USB a Genova denuncia di essere stato tagliato dalla commissione elettorale formata da CGIL CISL e UIL. L’episodio è interessante perché riflette l’assenza di un sistema di regole certe e condivise sulla democrazia nei posti di lavoro, a discapito di quei settori del sindacalismo più critici verso le attuali politiche del lavoro. Ne parliamo con Maurizio Rimassa, coordinatore ligure di USB.
Prima di tutto, che cosa è successo esattamente?
Per tre giorni in IREN si voterà per il rinnovo delle RSU. IREN è di fatto una holding di cui fanno parte numerose aziende, che erogano servizi nei diversi ambiti – acqua, gas, energia, rifiuti – e alla gestione della relativa parte commerciale. Ognuna di esse elegge la propria RSU e ci sono 3 collegi elettorali– Piemonte, Liguria ed Emilia. Noi abbiamo presentato due liste in IRETI (una nel settore gas e una nel settore acqua) e una in IREN Energia. Il regolamento fatto da CGIL CISL UIL insieme all’Azienda prevedeva che la documentazione necessaria alla presentazione della lista fosse consegnata entro la mezzanotte del 3 gennaio non in un luogo o a persone fisiche (azienda, sede della commissione elettorale), come avviene di solito, ma inviato a una normale casella di posta elettronica – non una PEC per intenderci – o a un fax aziendali. Cosa che abbiamo fatto, scegliendo la mail. Nei giorni successivi però ci hanno detto che la nostra lista era fuori perché la documentazione non era arrivata per problemi tecnici. A Genova la commissione elettorale si è fatta certificare da IREN il mancato ricevimento della documentazione, dopodiché si è rivolta per un parere alla commissione nazionale e, a quel punto, ha deciso, senza neppure votare, che eravamo fuori. Anche se possiamo dimostrare di aver inviato la documentazione nei termini previsti.
Come ti spieghi questa vicenda?
Non è un caso isolato. In altre città siamo stati esclusi perché ci è stato contestato che la copia dello Statuto del sindacato allegata non era la ‘copia conforme’, ma si trattava della stessa documentazione che consegniamo in centinaia di aziende in tutta Italia. D’altra parte qui a Genova si aggiungono probabilmente anche motivazioni locali. Qualche mese fa siamo entrati in AMIU, l’azienda di igiene urbana, dove un gruppo di lavoratori molto attivi nella lotta contro la vendita di AMIU proprio a IREN, ha aderito a USB e abbiamo eletto 4 delegati e un rappresentante per la sicurezza. Probabilmente CGIL CISL UIL temevano che anche in IREN, dove siamo entrati da non molto tempo, eleggessimo nostri rappresentanti. Per la stessa ragione in AS.TER, l’azienda di manutenzioni del Comune, dove la RSU è scaduta da diversi mesi, oggi voci di corridoio dicono che probabilmente non verrà rinnovata e ciascun sindacato nominerà i propri rappresentanti aziendali senza farli eleggere dai lavoratori. Ma aldilà di queste considerazioni c’è un problema più di fondo.
Quale?
Che la rappresentanza sindacale nei posti di lavoro, regolamentata dal Testo Unico del 2014, di fatto rimane una rappresentanza ‘fai da te’, dove a far da sé sono soprattutto CGIL CISL UIL, ma non sindacati come il nostro, che erano contrari ai contenuti di quell’accordo, ma hanno dovuto sottoscriverlo, dopo vani ricorsi in tribunale, perché sennò non avrebbero potuto presentarsi alle elezioni, né avere l’agibilità minima necessaria a tutelare gli iscritti.
Puoi farci un esempio?
Sì. Il Testo Unico detta alcune regole generali, ma poi, a ogni elezione, il sindacato confederale aggiunge regole supplementari per metterci in mora. Nel settore dell’igiene ambientale ad esempio si sono inventati l’obbligo di sottoscrizione del rinnovo contrattuale per poter presentare le liste, un rinnovo che noi avevamo combattuto con tutte le nostre forze e che era stato validato da un referendum con molte ombre. Quando abbiamo deciso di mettere una firma tecnica per poter comunque partecipare, all’AMA di Roma la mattina dopo c’erano già i volantini in bacheca che ci accusavano di essere incoerenti. Inoltre non esistono regole nazionali sulle procedure per gestire i vari passaggi burocratici, per cui – come è successo a noi in questo caso – può capitare che ti diano un numero di fax o una mail da spedire in piena notte, in un ufficio sconosciuto, in cui potrebbe anche non esserci nessuno.
Cosa farete?
Intanto ieri abbiamo organizzato una manifestazione di protesta davanti a IREN, a cui hanno aderito anche lavoratori delle altre aziende partecipate genovesi. Poi presenteremo ricorso all’Ufficio Provinciale del Lavoro e stiamo valutando anche la via giudiziaria.
Un bilancio complessivo?
Il bilancio ovviamente è negativo. E’ disarmante che altri sindacati ti combattano non esponendo le proprie ragioni, ma utilizzando cavilli di un regolamento fatto da loro a loro uso e consumo e facendosi aiutare dall’Azienda, che in teoria dovrebbe essere la controparte di tutti i sindacati. D’altro canto se diamo così fastidio vuol dire che evidentemente stiamo facendo bene il nostro mestiere.