CILE Perché la perestroika di Francesco non basta
IL FATTO
Dal 15 al 22 gennaio il Papa è in visita nella ‘sua’ America Latina, prima in Cile, poi in Perù. E almeno la prima tappa, quella cilena, si è svolta in un inedito clima di contestazione. Piccole manifestazioni di protesta con decine di arresti (RuptlyTv160118), l’occupazione della Nunziatura apostolica di Santiago, persino attacchi incendiari a una decina di chiese nel paese (HuffingtonPost160118) e oggetti scagliati contro Bergoglio sulla ‘papamobile’. Ma soprattutto, come ha scritto il quotidiano La Tercera (e come testimonia la foto qui sopra) i giornalisti al seguito si sono meravigliati dalla mancanza di entusiasmo e di partecipazione mostrato da un popolo di radicata tradizione cattolica.
IL CONTESTO
Le ragioni di questa freddezza, sfociata in qualche caso in aperta contestazione – come spiega l’articolo che abbiamo tradotto da La Izquierda Diario – sono molteplici. Da una parte lo scandalo suscitato dagli abusi sessuali da parte di decine di sacerdoti cattolici, così come dalla complicità della Chiesa Cattolica nell’oppressione degli indios Mapuche, che ha costretto il Papa a dedicare parte del suo viaggio alle scuse. Ma c’è, più in generale, una crisi di egemonia della Chiesa Cattolica in un paese colpito dalla crisi economica, in cui la popolazione vede peggiorare le proprie condizioni di vita e d’altra parte pochi privilegiati difendere strenuamente le proprie rendite. Con la complicità sia del sistema politico (la stessa Michelle Bachelet è stata al centro di uno scandalo a causa dei vantaggi economici che la sua famiglia ha ricavato dalla sua posizione di governo) sia della stessa Chiesa Cattolica cilena, che con quelle élites intrattiene strette relazioni, per non dire che ne fa parte. La diocesi di Santiago possiede il 15% di Coseche, azienda importatrice di Chevrolet, nonché quote azionarie di una ventina tra le maggiori imprese del paese, più 400 immobili (10 volte tanto – per qualcuno – se si considerano i bene intestati a prestanome) per un valore di circa 140 milioni di euro (a valore catastale, non di mercato). Come scrive il NewYorkTimes150118, paragonando l’attuale Chiesa cilena quella che si guadagnò una reputazione all’epoca di Pinochet, ‘Oggi i vescovi cileni non hanno la stessa immagine e hanno molta meno autorità morale. Molti cileni pensano che le gerarchie cattoliche siano più allineate agli interessi del business piuttosto che a quelli dei poveri e degli oppressi’. Mentre l’Economist130118 rincara la dose affermando che ‘padre Karadima (il maggior autore di abusi sessuali in Cile) aveva strette relazioni con l’élite cilena, il che fa sospettare che importanti potentati gli abbiano permesso di agire impunemente per molti anni’. Tutto ciò avviene appunto mentre la congiuntura economica, da almeno 3 anni, ha invertito la rotta e la dipendenza economica del Cile dall’esportazione di materie prime (il rame conta il 13% del PIL), con la crisi mondiale e il rallentamento della Cina, ha prodotto effetti drammatici per una fascia significativa di popolazione (IlCafféGeopolitico040515, Eastwest.eu240216). Un anno fa 2500 lavoratori di Minera Escondida, la più grande miniera di rame del mondo, iniziavano uno sciopero, durato settimane, contro la multinazionale anglo-australiana che gestisce il sito, dopo l’annuncio di tagli alle pause e alle retribuzioni. Anche qui il fallimento di una ‘sinistra di governo’ che non osa mettere in discussione le teorie neoliberali, la Nueva Mayorìa di Michelle Bachelet, apre le porte al ritorno della destra,cioè a Sebastián Piñera, fratello del Ministro del Lavoro di Pinochet, lui stesso legato al dittatore, vincitore delle recenti elezioni.
Cile: tre fattori politici nella visita di papa Francesco
Jorge Bergoglio inizia questo lunedì la sua visita in Cile, mentre vengono a galla nuovi casi di abusi sessuali che coinvolgono esponenti della criticata istituzione ecclesiastica e in un quadro di forte critica al regime politico cileno e al modello economico neoliberale. Perché una visita in questo contesto? Che cosa si cerca di riguadagnare in termini di immagine?
di Ángela Suárez, La Izquierda Diario, 15 gennaio 2018
Ammontano a circa 11,7 milioni di dollari i soldi pubblici spesi per permettere la visita di Papa Francesco in Cile. Una cifra abbastanza alta, considerando il carattere ‘laico’ dello Stato e il fatto che almeno metà della popolazione non considera rilevante l’arrivo del Pontefice. D’altra parte il governo, le imprese e l’establishment al completo hanno investito tempo, energie e risorse all’evento.
L’arrivo del Papa proprio in questo momento, mentre si avvicinano la fine del governo di Michele Bachelee e l’inizio di una nuova fase guidata dal presidente neoeletto Sebastián Piñera, non è passato inosservato. Perché proprio ora? Perché non attendere l’ascesa della destra alla guida del paese?
Un primo aspetto da considerare è che l’arrivo della più alta carica della Chiesa Cattolica avviene in un contesto di forte crisi della sua storica egemonia, con livelli di disapprovazione nei suoi confronti che negli ultimi anni sono cresciuti di pari passo con l’immagine negativa non solo dell’istituzione religiosa, ma anche del Papa stesso.
Secondo i sondaggi di Latinobarometro (novembre 2017) solo un 36% della popolazione ha fiducia nella Chiesa cattolica e Papa Francesco viene giudicato con un voto di 5,3 (in una scala da 1 a 10), facendo del Cile il paese dell’America Latina che esprime il giudizio peggiore nei confronti del pontefice. In questa occasione Marta Lagos, direttrice e fondatrice dell’istituto di statistica, ha dichiarato che i numeri ‘si spiegano in parte col fatto che il Cile è il paese che negli ultimi 10 anni ha subito il processo di secolarizzazione più acuto nella regione’, vedendo crescere ‘il numero di persone senza religione, agnostiche o atee, al 25%, superando così il paese più laico della regione, che è l’Uruguay’.
Due mesi dopo uno studio dell’istituto Cadem ha prodotto nuovi dati sull’immagine del Papa e della Chiesa nei diversi settori della popolazione. Da un report di gennaio emerge che il 50% degli intervistati considera ‘poco/per nulla importante’ l’arrivo del pontefice e che dallo scorso giugno a gennaio il consenso di Bergoglio è sceso dal 71% al 52%. Dunque ha perso 19 punti, mentre il dissenso è salito del 14%, dal 12% al 26%.
La crisi che la Chiesa Cattolica attraversa non è spiegabile senza prendere in considerazione le numerose denunce di abusi sessuali che hanno coinvolto almeno 80 sacerdoti e religiosi, e che non hanno smesso di fioccare neanche con l’arrivo del Papa. Lo scandalo esplose nel 2000 con le impressionanti denunce di abusi sessuali commessi da una alto prelato, Fernando Karadima, ed è andato avanti fino alle recenti accuse rivolte all’arcivescovo Ricardo Ezzati, capo della Chiesa Cattolica in Cile, di aver coperto i colpevoli e di non ‘aver fatto nulla’ fino a che essi non sono stati denunciati. Lo ha affermato Bishop Accountability, organizzazione nota per aver indagato sugli abusi e la cui fondatrice Anne Barrett-Doyle ha rivelato che Ezzati ‘starebbe reintegrando i sacerdoti accusati di molestie’.
La Chiesa deve cercare il modo di recuperare i vecchi livelli di consenso da parte della popolazione neutralizzando la massiccia dose di sfiducia accumulatasi. Con la visita del papa la Chiesa Cattolica si gioca la possibilità di un’inversione di tendenza nella crisi storica che sta attraversando.
Il secondo aspetto da considerare è la situazione politica del paese. Una fase instabile, incerta e segnata dalla polarizzazione, in cui la figura guida del cattolicesimo arriva mentre profonde critiche investono il sistema politico, i suoi partiti tradizionali, le imprese e le istituzioni come la stessa Chiesa o i Carabineros. Lo fa alla vigilia dell’insediamento del nuovo governo di destra, diretto dall’imprenditore Piñera, in un periodo in cui il neoliberalismo in Cile viene messo sotto accusa.
Il sistema politico cileno infatti non è riuscito a uscire dall’impasse apertasi nel 2011 col movimento degli studenti. Pur in un percorso tortuoso e difficile la critica al neoliberalismo cileno, retaggio della dittatura, che ha sottoposto tutti i più elementari diritti a privatizzazione e commercio, è andata avanti e anzi si è radicalizzata col passare degli anni. Se aggiungiamo che la coalizione di governo, la Nueva Mayorìa, così come la conosciamo, è spirata e che il centrosinistra attraversa la sua peggior crisi da decenni, capiremo come mai l’idea che siano necessarie conciliazione e ‘unità nazionale’, tra tante tensioni e polemiche, si sta facendo strada.
In questo clima l’approccio progressista di Bergoglio, le sue ‘critiche al neoliberalismo’, e alla ‘società dei consumi’, la sua difesa di una Chiesa ‘di e per i poveri’, aperta all’idea di cambiamento sociale, si adatta abbastanza bene al Cile, il paese governato con più rigore neoliberale della regione. In un modo o nell’altro il sistema politico cileno e la Chiesa Cattolica devono aiutarsi reciprocamente a uscire dalla comune crisi di legittimità, mentre provano a rispondere alle istanze sociali della popolazione e alle sue esigenze di cambiamento.
Che il Papa non abbia voluto visitare l’Argentina, né il suo presidente e imprenditore Mauricio Macri, e che abbia scelto di venire in Cile al termine del mandato di Bachelet e non all’inizio di quello di Piñera, potrebbe spiegarsi proprio a partire da tale critica al neoliberalismo, dall’idea di una Chiesa vicina ai poveri e distante, invece, da quei politici che vengono dalla grande impresa. Un approccio che viene criticato da destra da ambienti che difendono in modo molto netto l’eredità di Pinochet e l’idea di una società fondata sulle regole neoliberali. Ambienti che criticano il Papa accusandolo di essere ‘troppo progressista’ e di dare troppo ascolto al malessere sociale. D’altra parte però, nonostante la sua citica agli eccessi del mercato, Bergoglio è il rappresentante di una delle istituzioni più importanti del capitalismo cileno, con le disuguaglianze che esso ha prodotto, la corruzione, gli abusi sessuali e gli sprechi da cui esso non è stato immune.
Infine il terzo fattore che incombe sulla visita del pontefice è l’avanzata, negli ultimi 3-4 anni, del movimento delle donne e LGBT, che in diversi paesi del mondo è sceso in piazza per mettere in discussione la Chiesa Cattolica e reclamare diritti democratici, ad esempio, nel caso del Cile, il diritto all’aborto – che qui è riconosciuto in tre situazioni specifiche – il matrimonio omosessuale e una legge sull’identità di genere.
Senza dubbio le mobilitazioni di massa delle donne e del movimento LGBT sono state un fattore significativo nel momento in cui sono emerse le critiche verso l’istituzione religiosa e le rivendicazioni di questi settori si sono diffuse. In differenti luoghi del mondo la Chiesa è stata denunciata da migliaia di persone nelle strade, non solo per gli abusi sessuali, ma anche per la sua costante avversità alle rivendicazioni dei settori tradizionalmente oppressi della società.
Crollo dei bitcoin: nuove tecnologie, vecchie regole
‘Se avessi investito 5 euro 7 anni fa, oggi avresti 4,4 milioni di euro’ – possiamo leggere ancora oggi in qualche banner pubblicitario su internet. Eppure, dopo il 2017 che ha visto il boom dei bitcoin e delle criptovalute, il 2018 si annuncia come l’anno della criptobolla. Per noi è l’occasione per cercare di capire come funziona il mondo delle criptovalute e come il capitalismo utilizza le più moderne tecnologie per fare affari.
Nato nel 2009 dall’idea di Satoshi Nakamoto, pseudonimo di non si sa chi, autore dell’idea e sviluppatore del codice sorgente che ha permesso alla prima criptovaluta di fare la sua comparsa, il bitcoin, che nel 2011 valeva un dollaro, lo scorso dicembre ha sfiorato i 20mila dollari, mentre oggi ne vale meno della metà. Prima di chiedersi il perché di questo tonfo vale la pena cercare di capire un po’ più nel dettaglio che cos’è. Il bitcoin, la più importante tra le diverse criptovalute in circolazione, è una ‘moneta digitale decentralizzata’. Tra i due aggettivi quello che conta di più non il primo, ché ormai la stragrande maggioranza delle nostre transazioni è un semplice trasferimento di bit, quanto il secondo. Ma in che senso decentralizzata? Nel senso – diciamo così – che il bitcoin sta all’euro come wikipedia sta alla Treccani. Vediamo perché. Innanzitutto è una moneta privata, cioè non ha corso legale e la sua efficacia si basa solo sul fatto che venga accettata come mezzo di pagamento da chi sceglie di usarla. Poi non richiede la presenza di un soggetto terzo che garantisca il suo valore e soprattutto che impedisca di usare lo stesso denaro più volte in transazioni diverse. Normalmente infatti il valore di una moneta è garantito dalla banca centrale che la emette e, più in generale, dallo Stato, che assicura il pagamento dei debiti nominati in quella moneta (in primis il debito pubblico). Ma c’è un altro problema, che gli addetti ai lavori chiamano double spending. Se io pago qualcosa in contanti il denaro passa di mano e dunque con la stessa banconota non posso pagare due volte. Ma se la transazione è elettronica è duplicabile come tutto ciò che è virtuale. Come faccio a evitare il doppio pagamento? Registrando l’intera sequenza di tutte le transazioni in bitcoin dalla sua nascita in un libro contabile (ledger), che non è immagazzinato nel server di una banca, ma è condiviso tra tutti i possessori della criptomoneta attraverso i loro computer grazie a una rete peer-to-peer (P2P), la stessa tecnologia che si usa comunemente per il file sharing. Come sappiamo esistono software con cui è possibile collegarsi a una rete P2P per cercare e scaricare file, ad esempio film, da un qualsiasi computer collegato alla rete. La caratteristica delle reti P2P è di essere paritarie, in altre parole: per condividere un file non è necessario archiviarlo su un server a cui chi vuole scaricarlo deve accedere, basta averlo sul proprio hard disk. Si tratta dunque di reti meno vulnerabili a un attacco esterno, perché per danneggiarle non basta colpire un server, ma bisogna colpire un numero molto alto dei loro nodi.
Oltre che sul P2P il bitcoin si fonda sulla tecnologia blockchain. Il libro mastro su cui viene registrato lo storico delle transazioni infatti è strutturato appunto come una ‘catena di blocchi’. Ogni volta che si effettua una transazione alla catena viene aggiunto un blocco contenente la registrazione della transazione insieme a tutte quelle che l’hanno preceduta. Ciò significa che ogni transazione successiva conterrà traccia di quelle antecedenti e quindi le validerà e, poiché il libro mastro è condiviso tra migliaia di PC, per usare lo stesso denaro due volte bisognerebbe manometterlo violandoli tutti. Se si aggiunge che tutte le transazioni vengono registrate utilizzando avanzate tecniche di crittografia e che le commissioni sono esigue, ne consegue che si tratta di un modello che per molti versi offre più garanzie dei conti online forniti dalle banche, oltre a garantire maggiore privacy e non essere (per ora) regolamentato né sottoposto a tassazione. Il registro contabile distribuito tra i nodi della rete sostituisce il database della banca come wikipedia i ponderosi volumi della Treccani.
Blockchain e P2P hanno reso possibile non solo la comparsa delle monete virtuali, ma addirittura la possibilità per chiunque di creare la propria valuta digitale. Un’opportunità che oggi viene sfruttata sempre più spesso per finanziare nuove imprese attraverso le cosiddette Initial Coin Offering (Offerta di Moneta Iniziale, ICO), una combinazione tra IPO (il rastrellamento di capitali in Borsa) e crowdfunding (ricerca di contributi da parte di imprese, associazioni, singoli su siti web specializzati, talvolta in cambio di piccoli omaggi: chiedo fondi per organizzare uno spettacolo e metto in palio 10 ingressi ridotti tra chi me li dà). Come funziona? Facciamo un esempio. Per finanziare il lancio di PuntoCritico.info creiamo una mia moneta virtuale – la chiameremo il PuntocritiCoin – che venderemo su internet. Chi compra i PuntocritiCoin perché è convinto che il progetto avrà successo avrà due opportunità: 1. ricevere una compartecipazione agli utili, 2. se saranno in tanti a comprarlo e quindi il valore della nuova moneta aumenterà, guadagnare sulla rivalutazione della moneta stessa. Nel 2014 la piattaforma Ethereum, nata per permettere di realizzare ICO creando criptomonete aziendali, è nata essa stessa grazie a un’ICO e all’emissione di criptovaluta ether, che raccolse l’equivalente di 18milioni di bitcoin. Poiché il sito è diventato il collettore di quasi tutte le ICO, il valore di un ether in un anno è passato da 12 a 280 dollari. Brave, il browser disegnato da uno dei soci dei fondatori di Mozilla (l’azienda che produce Firefox), con un’ICO ha incassato l’equivalente di 35 milioni di dollari in 30 secondi (LeMacchineVolanti290917). Di recente l’ICO lanciata per finanziare Spankstream, un sito porno americano, in poche ore ha raccolto l’equivalente di 7 milioni di dollari in SpankCoin (Investopedia). Il 10% degli incassi del sito verrà redistribuito tra chi ha investito sull’azienda. Il valore globale delle ICO nel 2016, 200milioni di dollari, nel 2017 ha superato i due miliardi, mentre il mercato delle criptovalute nel suo complesso è arrivato a circa 100 miliardi di capitalizzazione.
Ovviamente – nei mercati nulla si crea e nulla si distrugge – questo nuovo business ha creato fortune, ma anche contraddizioni. L’assenza di regolamentazione infatti favorisce speculazioni e truffe (anche se, visto come funzionano le ‘autorità di vigilanza’, questo potrebbe essere il male minore) e determina una perdita di controllo da parte degli Stati e possibili squilibri competitivi tra imprese. Per citare solo un caso pare c’è chi ipotizza che una delle cause dell’incredibile ascesa del bitcoin negli ultimi anni sia stato il massiccio utilizzo che ne hanno fatto i finanzieri cinesi per esportare capitali all’estero, visto il rallentamento dell’economia, aggirando i controlli bancari. Non a caso Pechino è da sempre uno degli avversari più pericolosi del bitcoin. A fine 2013 la banca centrale cinese infatti lanciava un warning sui mercati internazionali rispetto al pericolo rappresentato dalle criptovalute, spingendo il colosso cinese dell’e-commerce AliBaba.com a cancellare i pagamenti in bitcoin. Questo fatto insieme alla chiusura di SilkRoad, pricipale sito commerciale del deep web, dove le transazioni avvengono prevalentemente in criptovaluta, faceva precipitare il valore del bitcoin, che tuttavia ha recuperato il proprio valore nel periodo relativamente breve di 3 anni (la capitalizzazione complessiva ancora limitata favorisce forti oscillazioni in tempi brevi). Oggi la minaccia arriva di nuovo dalla Cina e stavolta anche dalla Corea del Sud (dove viene concluso il 20% delle transazioni in bitcoin). A settembre la Banca Popolare della Cina ha bandito le ICO e in seguito entrambe i paesi hanno introdotto limitazioni sulle criptovalute, memtre anche Francia e Germania annunciano interventi (Sole24Ore160118, AGI170118).
Vedremo che cosa accadrà, tuttavia ci sembra di poter ipotizzare che, aldilà delle specificità dovute all’utilizzo di nuove tecnologie, ci troviamo di fronte a una classica bolla speculativa. La Francia istituirà una commissione per studiare misure atte a prevenire forme di speculazione mediante criptovalute. A guidarla è stato nominato l’ex governatore della Banca di Francia, Jean-Pierre Landau, che ha parlato dei bitcoin come dei ‘tulipani del XXI secolo’, riferendosi alla bolla speculativa dei bulbi di tulipano scoppiata in Olanda nel ‘600. Nell’economia di mercato, già prima della rivoluzione industriale e del pieno dispiegarsi del moderno capitalismo, il fenomeno delle bolle speculative si è manifestato più volte e con caratteristiche analoghe: rastrellamento di soldi per finanziare un’attività che promette guadagni, grande successo di investimenti, sopravvalutazione dei profitti, i titoli di debito emessi a un certo punto crollano e siccome c’è sempre qualcuno che lo sa prima degli altri, di solito questo qualcuno ha tempo di vendere i propri titoli un secondo prima del crollo, tenendosi i profitti e scaricando le perdite sui polli (a chi volesse approfondire l’argomento consigliamo l’ottimo Economia e pazzia: crisi finanziarie di ieri e di oggi, di Fabrizio Galimberti).
Satoshi Nakamoto, il presunto padre del bitcoin, che pare abbia accumulato un patrimonio pari a un miliardo di dollari senza mai spendere un solo cent, ha scritto che la sua moneta offre grandi opportunità a chi pensa a un modello di società libertaria. Può essere che questo sia stato il suo intendimento 10 anni fa: Purtroppo – come spesso capita quando si vede nella tecnologia in sé e non nel suo utilizzo regolato socialmente, un progresso – questa appare, anche alla luce di questo articolo, una straordinaria e nobile illusione.
LAVORO Perché si continua a morire
La recente tragedia di Milano (ieri è arrivata la notizia della quarta morte) ha riacceso i riflettori sul tema delle morti sul lavoro. Dopo anni in cui la stampa annunciava un trend positivo, con una diminuzione costante negli anni, il 2017 segna un’inversione di tendenza. L’INAIL non ha ancora presentato i dati definitivi, ma in un comunicato del 22 dicembre scorso dichiarava 952 morti sul lavoro (denunciate), per cui è probabile che il dato del 2016 (1130 decessi, vedi la tabella sopra) sia stato superato. D’altra parte già a settembre l’Ente aveva denunciato una crescita di oltre il 2% sui primi 9 mesi dell’anno (Repubblica201017).
E’ difficile dare una spiegazione univoca di un fenomeno complesso: c’è chi invoca la ‘crescita’ economica. La CGIA di Mestre, che lo scorso ha pubblicato un rapporto come sempre interessante metteva in relazione il fenomeno con le tragedie di Rigopiano e Campo Felice all’inizio del 2017. La realtà è che per poter fare delle valutazioni non generiche dovremmo poter disporre di dati più precisi. Ci sono numerosi fattori che incidono sulla registrazione e sull’interpretazione dei dati.
La prima osservazione è che il numero di incidenti, mortali e non, andrebbe analizzato in relazione al numero degli occupati e anche alle ore lavorate (più si lavora più si rischia). In secondo luogo su una corretta stima del fenomeno pesa la propensione dei lavoratori a denunciare gli infortuni e anche quella di aziende e tribunali a riconoscere gli infortuni sul lavoro come tali. Che è determinata da rapporti di forza sociali in evoluzione. Talvolta le aziende premono sui lavoratori a dichiarare una malattia invece di un infortunio, nei casi gravi per deresponsabilizzare l’impresa, nei casi più lievi per abbassare i costi (ad esempio i premi assicurativi crescono all’aumentare degli infortuni indennizzati). Negli anni c’è stata una stretta da parte anche di grandi gruppi industriali pubblici, che tendono a riconoscere un infortunio solo se questo avviene nello svolgimento di una mansione lavorativa in senso stretto o comunque a comportarsi diversamente da un caso all’altro. Dunque capita che se il lavoratore cade scendendo dalla gru per prendere il caffè l’infortunio non gli venga riconosciuto, se invece sta andando in bagno sì. Così come, nel caso degli infortuni in itinere (durante il viaggio da casa al posto di lavoro e ritorno), che in Italia sono riconosciuti e indennizzati dall’INAIL, prendono piede sentenze per cui non vengono indennizzati gli incidenti automobilistici se il tragitto è percorribile coi mezzi pubblici. Infine pesa il fatto che all’INAIL può denunciare un incidente chi l’assicurazione INAIL ce l’ha. Dunque rimane fuori il sommerso (12,6% del PIL secondo l’ISTAT) e non solo. Probabilmente il fatto che i dati scorporati per regioni vedano in testa alla classifica degli infortuni Emilia-Romagna e Lombardia e la Calabria sestultima non dipende solo dal fatto che al nord c’è più lavoro’ (Lettera43101017, interessanti anche le altre tabelle). Secondo l’Osservatorio indipendente sugli infortuni di Bologna i dati sarebbero sottostimati addirittura del 25% (Espresso250612).
Nonostante questi elementi di incertezza alcune riflessioni, a partire dalle quali ragionare sulle possibili soluzioni, possono essere fatte, anche analizzando le serie storiche elaborate dalla CGIA di Mestre sui dati INAIL:
– un modello economico che punta tutto sulla riduzione dei costi aziendali (la sicurezza infatti costa) aumenta i rischi
– lavoro precario, stipendi bassi, riduzione dei diritti rendono chi lavora più ricattabile, meno libero di denunciare, più propenso a lavorare in qualunque condizione, anche a scapito della sicurezza
– in Italia la legislazione in materia di sicurezza (D. Lgs. 626/1994, poi assorbito nel Testo Unico del 2008) più che alla prevenzione mira all’individuazione di un responsabile, cosa sacrosanta, ma che si fa quando ormai è troppo tardi (anche il sistema giudiziario spesso ci mette del suo: vedi la sentenza della Cassazione che ha annullato la condanna alla Eternit per prescrizione, PenaleContemporaneo240215)
– infine la mancanza di mezzi e personale di cui soffrono gli enti incaricati dei controlli, come Ispettorati del Lavoro e UOPSAL, non fanno che ostacolare la prevenzione.
Il grafico della CGIA mostra come la parabola discendente degli infortuni sul lavoro dopo il 1970 (l’anno dello Statuto dei Lavoratori) si interrompa negli anni ’80, per riprendere, ma rallentando visibilmente, dai primi anni ’90, quelli in cui si diffondono le politiche di ristrutturazione del mercato del lavoro e della contrattazione nazionale (accordi di luglio ’93) che hanno iniettato dosi da cavallo di ‘flessibilità’, privatizzazioni, compressione dei salari e tagli alla spesa pubblica nell’economia italiana.
CIN(A)EMA Se si delocalizza anche l’arte…
Alla ricerca di van Gogh, Cina-Olanda 2016, 82 minuti
Uscito nelle sale italiane lunedì, il docufilm prodotto e diretto Yu Haibo e Yu Tianqi Kiki rivela per la prima volta un aspetto ancora inedito del capitalismo cinese. Qualche anno fa l’esplosione dei suicidi in alcune grandi fabbriche fece conoscere anche al pubblico occidentale le disperate condizioni di lavoro (e di vita) di centinaia di migliaia di cinesi migrati dalle regioni agricole interne verso le grandi metropoli della costa, per produrre (in conto terzi) gli Iphone di Steve Jobs e altri prodotti di largo consumo nei nostri paese. Con Alla ricerca di Van Gogh viene alla luce la storia dei 10mila operai-pittori del quartiere di Dafen, a Shenzen, ai confini di Hong Kong, che nelle loro fabbriche di Van Gogh producono in quantità industriali (‘una volta ce ne hanno commissionato 5mila, 700 al mese’) riproduzioni del pittore olandese pronte per essere vendute ai turisti dai negozi di souvenir di Amsterdam. Anche Zhao Xiaoyong è un ex contadino, che alla fine degli anni ’90 è migrato verso il far east in cerca di fortuna, ma quello che per lui è un lavoro seriale produce in Zhao anche una sorta di ossessione (al punto di parlare col pittore olandese in sogno) e il desiderio inarrestabile di vedere, una volta nella vita, gli originali di cui per 20 anni ha avuto solo fotografie da usare come modello. Per riuscirci raccoglie la somma necessaria per andare ad Amsterdam con la famiglia. ‘I colori sono diversi’ esclama attonito davanti all’Autoritratto col cappello grigio.
Il film è distribuito da Wanted secondo un modello che si sta diffondendo rapidamente, in particolare per i film di piccole produzioni indipendenti (è successo l’anno scorso con PIIGS, il documentario sulle conseguenze delle politiche di austerity nel sud Europa). Chi è interessato a organizzare una proiezione può rivolgersi direttamente alla distribuzione e appoggiarsi a un circuito di sale presente in tutte la maggiori città italiane.