FOCUS Utopia 4.0 e tagli nel programma 5 Stelle
A poche settimane dal voto un sondaggio di Pagnoncelli pubblicato dal Corriere270118 dà il Movimento 5 Stelle prima lista tra i lavoratori dipendenti (al 40,6% tra gli operai, la Lega è seconda al 19,6%, il PD al 13,6%; 33% tra insegnanti e impiegati, secondo il PD col 21,8%) e tra i giovani (28,1% tra i 18 e i 24 anni, 32,8% tra i 25 e i 34). Mentre il PD del ‘giovane Renzi’ sfonda solo nella categoria sociale del pensionati (33%) e nella fascia anagrafica degli ultra65enni (36,1%). Il tour elettorale di Luigi Di Maio, ‘capo politico’ del Movimento, le sue interviste e le dichiarazioni a simposi confindustriali curiosi di tastargli il polso, ci forniscono un’opportunità per capire che cosa abbiano in testa i vertici 5 Stelle nel caso, pur improbabile, che il 4 marzo ottenessero i numeri per un incarico di governo. Aldilà della retorica da talk show sul loro tasso di competenza infatti è importante provare a capire se nel minestrone di idee che si sono manifestate in questi anni nelle loro fila, col tempo si stia facendo avanti un approccio all’economia – e in particolare al tema del lavoro – dotato di una coerenza interna.
Il 20 gennaio il Blog delle Stelle ha pubblicato i ’20 punti per la qualità della vita degli italiani’, una lista di proposte che spazia dalla giustizia al fisco e dalla digitalizzazione alla green economy. In rete si trova anche il programma più articolato elaborato dagli attivisti attraverso la piattaforma Rousseau, ma si tratta di un testo che risale a quasi un anno fa e che non è stato più aggiornato. Per quanto riguarda i 20 punti, più che di un programma politico si tratta di un’enunciazione di titoli talvolta di difficile interpretazione, perché priva di una descrizione nel merito di ogni proposta. Purtuttavia una lettura parallela dei 20 punti e del programma, integrata con interviste e dichiarazioni di Di Maio in questi ultimi mesi forniscono materiale a sufficienza per farsi quanto meno un’idea.
Welfare: oltre al reddito di cittadinanza (che in realtà nella proposta depositata al Senato è un sussidio di disoccupazione erogato in cambio della disponibilità a svolgere lavori di pubblica utilità e con l’obbligo di accettare offerte di lavoro da privati (pena la decadenza), sono previsti una ‘pensione di cittadinanza’ non inferiore a 780 euro (1170 per le coppie) e agevolazioni per le famiglie con bambini e anziani (rimborso asili nido, pannolini e baby sitter secondo il ‘modello francese’, aumento delle detrazioni alle famiglie per colf e badanti). Sulla sanità si prevede un generico aumento delle risorse (e l’abbattimento delle liste di attesa), mentre, per quanto riguarda la scuola, si parla di assunzioni e azzeramento del precariato.
Pensioni: abolizione della riforma Fornero e adozione dello schema ‘quota 100 o 41 anni di età’, in pratica per andare in pensione bisognerebbe avere 41 anni di versamenti oppure un numero di anni che, sommati all’età anagrafica, diano almeno 100, ad es. 65 anni di età e 35 di contributi. E’, per intenderci, la vecchia proposta dell’ex Ministro del Lavoro Cesare Damiano (PD, area Orlando).
Lavoro: nessun intervento annunciato sul mercato del lavoro (quindi il Jobs Act e la giungla contrattuale rimarrebbero) e la parola magica è flexsecurity, il modello con massima flessibilità e libertà di licenziamento abbinato a percorsi di ricollocazione garantita a chi perda il lavoro. E’ – per intenderci – anche il modello alla base della tanto criticata legge Biagi del 2003 e che ha reso famosa la Danimarca. E’ interessante notare come anche nella sezione dedicata al lavoro del già citato programma del M5S l’argomento mercato del lavoro non venga toccato. Si parte invece con nuove regole sulla rappresentanza sindacale nei posti di lavoro (cancellazione del monopolio di fatto delle grandi organizzazioni) e il taglio dei privilegi della ‘casta sindacale’, per proseguire con la riduzione dell’orario di lavoro e il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione d’impresa (il modello tedesco della Mitbestimmung).
Servizi pubblici: nell’incontro organizzato il 14 dicembre a Roma da Utilitalia, organizzazione di categoria delle aziende pubbliche del settore acqua, energia, rifiuti (RadioRadicale121217), Di Maio premette: ‘Non sono né affezionato al vecchio socialismo municipale né all’idea che tutto debba essere pubblico’ e rispondendo alla precisa domanda di un giornalista del Sole24Ore sulla proprietà delle aziende che erogano i servizi locali precisa: ‘secondo me non esiste una religione in questo settore’. Nel campo dei beni comuni (e Di Maio specifica che si intende l’acqua) ‘i profitti privati non devono entrare, a meno che non siano legati a investimenti sulle infrastrutture’, quindi la gestione del servizio idrico deve rimanere pubblica (non le reti si direbbe). Ma questo non significa – aggiunge – che se il M5S vincesse le elezioni ripubblicizzerebbe l’acqua il giorno dopo. Si andrebbe in ogni caso a scadenza delle concessioni.
Banche: creazione di una grande banca pubblica, allo scopo di garantire credito in particolare alle piccole imprese e alle famiglie. I consiglieri di amministrazione delle banche dovrebbero versare il 25% dei loro compensi come ‘cauzione speciale’ a copertura degli eventuali danni che essi dovessero arrecare ai loro istituti e ai correntisti.
Bilancio: per coprire le maggiori spese (17 miliardi per il reddito di cittadinanza, altri 17 per le famiglie, 2 miliardi per gli uffici per l’impiego ecc.) e le minori entrate (ad es. -13 miliardi dalla riduzione delle tasse), secondo Di Maio ci sono tre sorgenti a cui attingere:
- 30 miliardi dalla spending review di Cottarelli, il piano varato dall’ex funzionario del FMI per il governo Renzi e mai attuato, che prevedeva però, tra le varie misure, l’aumento dell’età pensionabile, sforbiciate agli assegni di accompagnamento e di invalidità e l’eliminazione di 85mila posti di lavoro nella pubblica amministrazione.;
- 40 miliardi dalla revisione delle agevolazioni fiscali ‘ingiuste’ – cioè della cosiddetta tax expenditure e infine
- 10-15 miliardi da un’eventuale spesa in deficit, senza escludere neppure uno sforamento del rapporto deficit/PIL del 3% voluto dall’Europa.
Rispetto a questa questione dei parametri europei, uno dei tormentoni di questa campagna elettorale, c’è un punto che il M5S poi dovrebbe chiarire. Da una parte infatti i 5 Stelle criticano il famigerato Fiscal Compact, che impone all’Italia di azzerare in 20 anni la differenza tra l’attuale rapporto debito/PIL (133%) e quello prescritto dalle regole europee (60%), dunque 73 punti di PIL (una riduzione della spesa pubblica di circa 45 miliardi l’anno), dall’altra però i 20 punti parlano di riduzione del rapporto debito/PIL di 40 punti in 10 anni, cioè una misura che abbatterebbe la spesa pubblica a un ritmo ancora più rapido.
Modello di sviluppo: la risposta a questa apparente incongruenza potrebbe essere trovata in un’altra previsione Di Maio, quella per cui, con un governo a 5 stelle, il gettito fiscale aumenterà grazie agli investimenti pubblici attivati nel frattempo. Di cosa si tratta? Le leve sarebbero essenzialmente due: la green economy, con la creazione di 200mila posti di lavoro nel settore del riciclo dei rifiuti e 17mila nuovi occupati ogni miliardo di investimento nelle rinnovabili e nell’efficienza energetica e poi la digitalizzazione dell’industria e della pubblica amministrazione. L’intervento di Di Maio al Workshop Ambrosetti 2017 e l’intervista sul Sole24Ore260118 riflettono questo approccio, che nei paesi del nord Europa, nella Germania che produrrà 1 milione di auto elettriche e nell’industria 4.0, più che un modello di riferimento sembra trovare la suggestione di immaginare un’età dell’oro della tecnologia che riecheggia le visioni da Utopia 4.0 racchiuse nel video del 2008 di Casaleggio padre Gaia e il nuovo ordine mondiale.
Per fornire una legittimità accademica a questa esaltazione del progresso tecnologico come bene in sé il M5S circa un anno e mezzo fa ha commissionato , in forma anonima, a un gruppo di ricercatori, coordinato dal sociologo Domenico De Masi un voluminoso studi, Lavoro 2025, pubblicata in volume da Marsilio e che si pone come obiettivo descrivere quale sarà il mondo del lavoro tra 10 anni. Oltre a De Masi vi hanno collaborato tra gli altri il direttore dell’Ufficio della CEI per i problemi sociali e il lavoro, Fabiano Longoni, il filosofo Diego Fusaro, il giuslavorista Umberto Romagnoli, giornalisti come Enrico Mentana, Luca De Biase (Sole24Ore) e Riccardo Staglianò (Repubblica), l’ex segretario nazionale della FIOM CGIL Giorgio Cremaschi, il direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova Roberto Cingolani.
‘Il contesto sarà contraddistinto dalla creatività e dall’innovazione. – si legge nel rapporto – Il ruolo delle tecnologie sarà fondamentale per migliorare la qualità della vita di lavoro e per generare nuovi risultati economici e sociali. Una parte del lavoro sarà svolta da soggetti artificiali, l’altra, fondata sulla creatività e sulle scelte, avrà una forte componente umana. Il lavoro tenderà a sviluppare le capacità antropologiche più profonde e sarà sempre meno faticoso. Consisterà sempre più in attività creative, relazionali, funzionali a una felicità qualitativa. Il lavoratore dovrà adattarsi a lavorare a stretto con tatto coi robot e a gestirli. I lavori dalla forte componente tecnologica e innovativa richiederanno elevate competenze e riceveranno elevata retribuzione’. E’ la visione che ritroviamo nelle parole con cui Di Maio spiega i progetti del M5S: ‘L’Italia che stiamo disegnando, anche insieme a esperti, accademici e professionisti, è una Smart nation, un Paese che si fonda sull’innovazione tecnologica, nel pubblico come nel privato. Immaginiamo un Paese snello, veloce, efficiente. Un Paese dove aprire un’impresa è semplice come aprire un sito internet’. Una visione così ottimistica che perfino Giorgio Cremaschi, che pure alla ricerca ha collaborato, nel convegno di presentazione alla Camera (18-19 gennaio 2017) è stato costretto a distinguere tra le ‘potenzialità’ positive dell’ingresso delle nuove tecnologie nel mercato del lavoro e ‘un mondo reale in cui ci sono dei rapporti sociali’ che nella nostra società stanno producendo ‘una gigantesca regressione’ per i lavoratori. Un mondo – verrebbe da aggiungere – in cui non esistono solo programmi di governo e disegni di legge, ma anche soggetti sociali con cui bisogna discutere e talvolta scontrarsi, in cui ci sono operai 50enni che non possono né andare in pensione né essere ‘riconvertiti’ con la bacchetta di Harry Potter in esperti di software e in cui, infine, bisognerebbe pensarci due volte prima di tracciare frettolose equivalenze (e prese poi chissà dove) tra denari investiti e posti di lavoro creati. Mentre Di Maio, nell’intervista citata al Sole24Ore dichiara senza tentennamenti ‘Su ILVA va garantito il diritto alla salute. Servono bonifiche immediate, alle quali lavoreranno gli operai adeguatamente formati. Un miliardo investito nelle bonifiche genera fino a 13mila posti. Dopodiché, in quel sito nascerà un centro di ricerche e sperimentazione di tecnologie green. Taranto deve puntare su turismo e innovazione’. Sembra tutto così semplice…
INTERVISTA ‘Per i lavoratori non c’è quasi nulla’
Antongiulio Mannoni è nel direttivo della CGIL di Genova, la città di Beppe Grillo, e negli anni passati ha seguito vertenze importanti come quelle della Fincantieri e dell’ILVA. Gli abbiamo chiesto un parere sui 20 punti e sul programma del M5S, a partire dai testi scritti e dalle dichiarazioni del candidato Di Maio.
Che impressione ti fa il programma dei 5 Stelle?
Aldilà del clima elettorale, in cui ciascuno tira fuori il proprio libro dei sogni, la cosa che più colpisce è che un movimento che si presenta come rivoluzionario si muove su un terreno di piena compatibilità con l’esistente. Non solo non c’è nulla di rivoluzionario, ma neanche una proposta di cambiamento radicale del modello economico. Un atteggiamento che è figlio di un approccio liberale, ‘illuminato’ se vogliamo, con una attenzione al sociale, certamente, ma nulla più. Per chi come me ha una formazione di sinistra colpisce il ritratto di una società dove lavoratori e imprese, sono sullo stesso piano, dove alla fine se i servizi pubblici sono gestiti dal pubblico o dal privato è sostanzialmente lo stesso (tranne l’acqua!), dove manca un’attenzione anche al tema dei diritti fondamentali come scuola, casa, sanità. Per quanto riguarda il lavoro possono rimanere in piedi le decine di tipologie contrattuali ultraprecarie che le imprese hanno a disposizione per assumere e lo stesso Jobs Act. Tutto in cambio di un reddito di cittadinanza, che ti danno se prometti di accettare un lavoro pur che sia, magari eliminando altri ammortizzatori sociali come la cassa integrazione e andando verso il modello inglese, quello che vediamo nei film di Ken Loach. Dove non ci sono più i lavoratori, ci sono dei sussidiati che cercano di sopravvivere passando le loro giornate in coda a uno sportello. Infine ci sono le illusioni, come quella di poter trattare con l’Unione Europea. Quando poi si parla di far pagare agli amministratori delle banche una cauzione a copertura di eventuali danni futuri siamo alla fantascienza…
Qual è stata la tua esperienza in questi anni coi militanti dl M5S nelle fabbriche?
Ce ne sono tanti, anche iscritti alla CGIL. Li abbiamo incontrati anche in alcune lotte importanti e spesso erano in prima fila. Molti operai e parte del ceto medio impiegatizio votano 5 stelle, ma cosa c’è per loro nel programma del Movimento? A parte forse il fisco, dove si toglierebbero un po’ di tasse dalla busta paga – sempre meno che alle imprese comunque – non vedo quasi nulla. Ai lavoratori dell’ILVA si dice che bisogna privilegiare la salute e quindi la loro fabbrica va chiusa. Per quanto riguarda le aziende partecipate lo slogan è quello della semplificazione, che di solito è sinonimo di tagli. E infine anche sul sindacato. Cosa significa riformare il sindacato? Va bene togliere il monopolio sindacale e colpire i privilegi, altra cosa è se invece si pensa di ridurre i diritti sindacali, magari per sostituire al confronto tra lavoratori e imprese il modello tedesco, in cui, per intenderci, il sindacato è quello che nomina il capo del personale.
E a proposito dell’infatuazione tecnologica?
Da una parte i 5 Stelle colgono un aspetto reale. Anche nella ricerca che avete citato ci sono dei dati interessanti. Dall’altra però non colgono il fatto che le scelte vengono fatte in funzione di un’economia basata sui profitti. Se si distruggono milioni di posti di lavoro non è per liberare l’uomo dal lavoro, ma per far costare il lavoro di meno. Poi c’è anche molto semplicismo.. L’economia italiana è in ritardo su molti fronti, questo è indubbio. L’industria informatica non c’è più. Uno dei motivi per cui in Italia non c’è una mobilità elettrica è che non produciamo auto elettriche. Per farlo ci vorrebbero politiche di incentivi, perché un’auto elettrica costa 3-4volte un modello normale. Però o si costruiscono fabbriche che le producono oppure il rischio è semplicemente che l’auto elettrica diventi un business per le multinazionali dell’auto che i modelli elettrici li producono già ovvero che i posti di lavoro si creino sì, ma in Francia o in Germania. Voglio dire che o i problemi si affrontano tenendo conto di tutti questi particolari oppure si rischia di fare delle semplificazione e di creare delle aspettative destinate a essere deluse.
Un’ultima osservazione: possiamo essere severi con queste tesi, ma se il M5S è il primo partito tra i lavoratori c’è una responsabilità dei partiti che dovrebbero essere più vicini al sindacato.
Questo è l’altro elemento. E’ chiaro che – come ho detto – il programma economico del M5S è debole e criticabile, ma è altrettanto vero che i 5 Stelle sono l’eredità che ci hanno lasciato la sinistra di governo e i governi di centrosinistra con l’appoggio della sinistra. Tra i lavoratori questa semplice considerazione pesa. D’altra parte in questa campagna elettorale le proposte in campo sono quelle che abbiamo visto, una versione un po’ edulcorata del programma di Berlusconi fondato sull’aumento della spesa pubblica, o, in alternativa quelle della ‘sinistra’: o la continuità con l’attuale legislatura e i suoi ‘successi’ in campo economico oppure il classico rilancio di politiche di welfare di ispirazione socialdemocratica, come possono fare Liberi e Uguali o Potere al Popolo. Ma rilanciare il welfare senza spiegare dove si prendono i soldi, senza ricorrere al solito ritornello della lotta all’evasione fiscale, è poco credibile. Oggi la principale forza a sinistra del PD, Liberi e Uguali appunto, mette al centro il lavoro, la revisione del Jobs act, una riforma del fisco per redistribuire la ricchezza, ma si tratta di proposte molto fumose, che su un lavoratore non esercitano certo un grande fascino e per di più vengono portate avanti dagli stessi che 15-20 anni fa, a spese dei lavoratori, facevano le cosiddette riforme.
MEDIO-ORIENTE Sui curdi si giocano gli assetti della Siria post Assad?
La settimana scorsa l’esercito turco ha annunciato di aver avviato l’operazione ‘ramo d’ulivo’ per la conquista di Afrin, enclave curda in territorio siriano, uno dei tre cantoni (insieme a Kobane e Jazira), in cui è diviso il territorio del Rojava, regione di fatto autonoma sotto il controllo delle milizie dell’YPG e dal partito PYD, legato al turco Partito dei Lavoratori Curdo (PKK), storico nemico di Ankara. Ad Afrin vivono circa 200mila curdi, più alcune decine di migliaia di rifugiati scappati dalle zone di guerra. L’obiettivo di Erdogan appare quello di creare una fascia di sicurezza che impedisca ai curdi della Siria del Nord di unirsi a quelli che vivono in Turchia a ridosso dei confini con la Siria. Alcune fonti riferiscono che l’YPD sarebbe in procinto di dichiarare anche formalmente l’autonomia dei territori curdi della Siria del nord ed è chiaro che il pericolo per la Turchia è che nasca una federazione di enclavi curde in territorio siriano e turco, possibile embrione di uno Stato curdo indipendente. Un’operazione che potrebbe avvenire con la benevolenza degli USA, che ultimamente hanno stretto un’alleanza militare antiISIS con le milizie curde, e forse anche della stessa Israele. Secondo alcuni analisti l’operazione turca si collocherebbe in uno scambio tra Erdogan e Putin: i turchi hanno il permesso russo per attaccare i curdi, mentre i russi avrebbero il via libera turco per attaccare i gruppi militari sunniti concentrati a Idlib, nel nord della Siria. Come racconta EastWest.eu220118 si tratta di una decisione concretizzatasi con un incontro tra i vertici militari turchi e quelli russi il 18 gennaio. Putin, che per quasi due anni aveva svolto un ruolo di garante a tutela dei curdi della Siria del nord, sembrerebbe averli sacrificati sull’altare di un accordo con la Turchia (sono lontani i tempi dell’abbattimento del jet russo di tre anni fa) sul futuro della Siria. Ieri infatti si apriva la Conferenza di pace per la Siria a Sochi e a Mosca il Presidente russo incontrava l’omologo israeliano Netaniyahu. Il sito DEBKAfiles, espressione dei servizi militari israeliani e di solito ben informato, anticipa in una nota (che vi proponiamo in traduzione di seguito) i contenuti del piano che Putin avrebbe elaborato consultandosi coi maggiori alleati dei due contendenti in Siria, l’Arabia Saudita e l’Egitto, e tramite loro, con la diplomazia USA. Tra i punti principali l’indizione di elezioni anticipate, sotto la vigilanza di Mosca, con regole che spezzerebbero il monopolio del potere della minoranza alawita di Assad e l’espulsione di tutte le milizie straniere dal paese, incluse quelle legate all’Iran, nonché la loro sostituzione con un nuovo esercito finanziato e armato da Mosca (che renderebbe la Siria di fatto un protettorato russo).
Sempre DEBKAfiles rivela che dal punto di vista militare l’offensiva turca sarebbe di fatto stata respinta dai curdi, una notizia che già era trapelata attraverso vari canali non ufficiali e sembra essere confermata dalla contraddittoria propaganda di Erdogan, che un giorno afferma di essere pronto ad arrivare ai confini con l’Iraq, un altro quasi ridimensiona l’operazione ‘ramo d’Ulivo’ affermando che si tratta di un ‘avvertimento’. Secondo il sito israeliano ‘Il presidente turco avrebbe detto a Trump e a Putin che non si impadronirà dell’enclave di Afrin, nel nord della Siria, dopo 3 giorni di assalti con risultati insignificanti’ e ‘nonostante le pretese turche di aver conquistato 4 villaggi ad Afrin, in realtà non ci sono stati veri e propri scontri militari. Le milizie curde dell’YPG semplicemente sono uscite dalla porta e si sono ritirate’. I turchi avrebbero deciso di rivolgersi verso un altro obiettivo, la città di Manjib, anch’essa sotto il controllo dell’YPG.
Putin progetta la fine dell’egemonia alawita a Damasco e l’espulsione delle milizie filoiraniane, inclusa Hezbollah
DEBKAfiles, 28 gennaio 2018
Vladimir Putin ha pronto il suo piano per la conferenza di Sochi. Lo presenterà a Binyamin Netanyahu lunedì 29 gennaio, quando lo incontrerà.
DEBKAfile riferisce che il presidente russo ha preparato un piano per il futuro postbellico della Siria da presentare alla conferenza di pace che inizia lo stesso giorno nel resort di Sochi sul Mar Nero. Mosca ha invitato 1600 esponenti del Governo e dell’opposizione. Alcuni gruppi ribelli hanno annunciato che boicotteranno l’iniziativa. DEBKAfiles riferisce che gli assenti sono gruppi che sostengono Assad e filoiraniani, che hanno deciso di non partecipare per esprimere le proprie obiezioni al piano russo. A meno di ripensamenti dell’ultimo minuto la sostanza del piano è la seguente:
– Elezioni anticipate per il rinnovo del Parlamento e del Presidente, con la garanzia di Mosca sull’autentica democraticità del voto e la possibilità, per la prima volta e per tutte le componenti della popolazione, di votare e di presentare candidati.
– la nuova costituzione rifletterà i mutamenti demografici che hanno colpito il paese nei 7 anni di guerra. La componente etnica più grande, i sunniti, avrà la maggioranza dei seggi nel Parlamento, mentre la piccola setta Alawita di Bashar Assad perderà i privilegi da minoranza dominante. In questo modo Assad perderà il suo predominio sulla scena politica siriana.
– al posto delle forze militari governative, che sono state pesantemente svuotate dalla lunga guerra, verrà costituito un nuovo esercito nazionale siriano. Poiché la maggior parte dei giovani siriani in età di leva negli ultimi anni si è rifiutata di servire nell’esercito di Assad, gran parte delle unità esistono sono sulla carta. Anche in questo caso la struttura demografica del paese verrà rappresentata a tutti i livelli del nuovo esercito. Mosca si impegna a finanziare le forze armate e a dotarle di armi moderne, così come a riorganizzare le truppe, come già sta avvenendo. Per elaborare queste proposte i russi si sono consultati intensamente con Riyadh e il Cairo, la prima come importante sostenitrice dell’opposizione siriana ad Assad, la seconda invece come forte sostenitrice del Presidente. Questo stratagemma ha dato a Mosca la più ampia possibilità di consenso interarabo al piano e, inoltre, come riporta DEBKAfiles, un canale indiretto con Washington. I leader saudita ed egiziano, dopo aver ricevuto il piano, lo hanno mostrato all’amministrazione Trump e ne hanno raccolto le osservazioni per poi ripassarle a Mosca.
Solo su un punto i sauditi hanno premuto con forza sui russi affinché modificassero il piano originale. Hanno affermato cioè che così come era redatto non era chiaro a quali forza armate verrebbero affidate le diverse aree del paese. Mosca ha risposto che il nuovo esercito nazionale siriano le avrebbe prese in carico tutte. Riyadh ha insistito sull’inserimento di uno specifico provvedimento che imponga l’espulsione di tutti i gruppi armati stranieri dal paese. Mosca ha accettato questo emendamento e ha comunicato a Tehran che la risoluzione che verrà proposta alla conferenza di Sochi includerà la messa al bando di ogni presenza militare straniera in Siria. In altre parole Putin ha accettato di mettere fuori dalla porta le forze iraniane e tutte le milizie sciite entrate nel paese e operative sotto il comando iraniano, inclusa Hezbollah.
Questo è il nocciolo dell’informazione che Putin propone di trasmettere al primo ministro israeliano Netanyahu quando si incontreranno a Mosca lunedì, lo stesso giorno in cui inizia la conferenza di Sochi. Netanyahu chiederà anche al suo ospite di rendere il piano vincolante in modo ferreo, in modo che Tehran ed Hezbollah non trovino in futuro una scappatoia per rientrare in Siria. Se Putin riesce a ottenere l’accettazione anche parziale del piano di pace avrà ottenuto un successo di prima grandezza.
VENEZUELA Economia al collasso: quanto dura Maduro?
La settimana scorsa il Tribunale Supremo di Giustizia venezuelano ha escluso la coalizione di opposizione MUD, un cartello oltre 20 organizzazioni, dalle prossime elezioni con argomentazioni di carattere formale. Le forze che fanno parte della coalizione potranno presentarsi, ma non con un unico candidato presidente (ANSA250118). Questo rende praticamente certa la vittoria di Maduro alle consultazioni che si svolgeranno entro la fine di aprile. Si tratta di un nuovo intervento della corte suprema venezuelana dopo lo scontro dello scorso marzo, quando l’organismo aveva di fatto esautorato il Parlamento, assumendo in sua vece il potere legislativo e togliendo l’immunità ai deputati, tanto da spingere il MUD a organizzare manifestazioni in tutto il paese. Si tratta di uno scontro istituzionale che maschera la crisi del regime bolivariano dopo la scomparsa di Hugo Chavez, ma soprattutto dopo la fine della bolla petrolifera su cui l’ex presidente aveva basato la sua politica di sostegno alle fasce più disagiate della popolazione.
A seguito della crisi economica mondiale l’economia del subcontinente latino-americano ha subito un forte rallentamento, ormai da alcuni anni, a causa del precipitare della domanda di materie prime su cui si reggono la maggioranza dei paesi sudamericani. Il Venezuela è il paese che ha pagato il prezzo più caro a causa della sua integrale dipendenza dal petrolio: più del 50% del PIL deriva dalle esportazioni di greggio, che rappresentano il 95% e più delle esportazioni totali. L’economia è sull’orlo del collasso. Secondo dati non ufficiali l’inflazione a fine 2017 era del 2616% (con un balzo in avanti dell’85% nel solo mese di dicembre). La situazione ha portato a una crisi alimentare drammatica, che a dicembre ha dato luogo a veri e propri assalti e saccheggi di negozi e grandi magazzini, dopo che l’annunciata distribuzione di generi alimentari in occasione di Natale (in particolare il tradizionale cosciotto di maiale) si era rivelata un fallimento, anche a causa del sabotaggio e della corruzione della burocrazia chavista. Nonostante il Governo sia intervenuto di recente per far girare all’indietro le lancette del’orologio, imponendo di applicare i prezzi in vigore il 15 dicembre, anche in questi giorni gli assalti ai negozi e le manifestazioni, duramente represse dalle forze di sicurezza anche con alcuni morti, stanno andando avanti (EastWest190118). Per molti venezuelani l’unica via d’uscita è la fuga. Sono in 3 milioni ad aver abbandonato il paese negli ultimi anni.
L’opposizione filoamericana di destra del MUD (Mesa de Unidad Democratica), che potrebbe approfittare della situazione per dare il colpo di grazia definitivo a Maduro, tuttavia appare anch’essa in difficoltà. Aldilà delle misure repressive messe in atto dal Governo, infatti, la realtà è che la maggioranza dei venezuelani non dimentica il tentativo di golpe del 2002, quando i militari appoggiati dagli Stati Uniti, arrestarono Chavez e lo sostituirono con Pedro Carmona, il capo della locale Confindustria, ma una vera e propria sollevazione popolare portò in 48 ore alla liberazione di Chavez e alla restaurazione del regime ‘bolivariano’. Non dimenticano come le élites del paese, di cui il MUD rappresenta gli interessi, allora non abbiano esitato a far leva sull’ingerenza di una potenza straniera pur di cercare di tornare al potere e da allora non abbiano mai rinunciato a quello schema, condito con la solita dose di violenze perpetrate nei confronti dei sostenitori del regime chavista e della popolazione, in particolare in occasione delle elezioni.
Questa diffidenza dei venezuelani nei confronti della destra ha contribuito a far sì che dopo la vittoria alle elezioni politiche del 2015 il MUD non sia più riuscito a cogliere un successo nelle urne, decidendo addirittura di non partecipare alle consultazioni di dicembre (a cui hanno partecipato 9 milioni di elettori su 19). Allo stesso tempo però, proprio questa incapacità dell’opposizione di diventare un punto di riferimento di massa per le fasce popolari deluse dal chavismo ha favorito il libero manifestarsi di una crescente insofferenza della popolazione nei confronti della corrotta burocrazia di Maduro, alla perenne ricerca di una mediazione con quelle élites sul terreno della politica economica, facendone pagare le conseguenze alle fasce più deboli della società venezuelana. La scelta di dare la priorità al pagamento del debito piuttosto che garantire i fondi necessari a sfamare la popolazione e assicurarle i servizi minimi, la concessione di condizioni di favore a multinazionali straniere per lo sfruttamento minerario del 12% del suolo nazionale, la gestione burocratica dello Stato e lo svuotamento delle assemblee popolari (che dovevano essere il cuore della ‘rivoluzione bolivariana’) e, infine, l’insofferenza per qualsiasi critica da sinistra sono state le ragioni che hanno determinato la sconfitta di Maduro alle elezioni del 2015 e l’emergere di un’opposizione interna al regime chavista.
Alle elezioni di dicembre tale opposizione si è espressa con le candidature di due figure popolari come l’ex Ministro del Commercio, Edoardo Saman in un municipio di Caracas e Angél Prado, membro dell’Assemblea Costituente, nello Stato di Lara, nel nord est del paese. Appoggiati dal Partito Comunista del Venezuela, dal partito della sinistra radicale Patria Para Todos e sostenuti da una basta coalizione di movimenti e assemblee popolari (Saman anche dal Movimento Tupamaro) i due sono apparsi candidati molto più vicini al popolo di quelli del PSUV di Maduro. In particolare nel curriculum di Saman pesa il suo impegno politico contro gli accaparratori di generi alimentari e lo strapotere delle multinazionali farmaceutiche. La macchina burocratica e clientelare del PSUV in un contesto di miseria e di crisi alimentare dilaganti come quello che abbiamo descritto ha messo in campo distribuzioni di buoni alimentari e regali di vario genere (tv ed elettrodomestici vari) per invogliare la gente ad andare a votare e a votare ‘bene’, ottenendo qualche risultato. Un mese prima delle elezioni una figura riconosciuta del chavismo come Basem Tajeldine, figlio dell’ambasciatore venezuelano in Libia, aveva reso noto un sondaggio secondo cui tra i militanti chavisti il 71% avrebbe votato Saman e solo il 18% la candidata del PSUV, che invece il giorno del voto invece ha ribaltato il pronostico prendendo il 66% contro il 6% del suo avversario. Per quanto riguarda Prado, la Commissione elettorale nazionale prima ha tentato di impedirgli di candidarsi, successivamente si è rifiutata di convalidare la vittoria del candidato col 57% dei consensi, scatenando la reazione di migliaia di elettori scesi in piazza pe protestare. In un altro comune la Commissione ha annullato la vittoria del candidato del PCV, Régulo Reyna, col 62% dei voti sostenendo che non era autorizzato a presentarsi.
Tuttavia non è chiaro quanto a lungo possa durare ancora il regime chavista in presenza di una crisi economica e di consenso di questa gravità. L’amministrazione Trump a novembre ha iniziato una vasta azione diplomatica per arrivare a un embargo totale del petrolio venezuelano, che – come ha dichiarato il presidente argentino Mauricio Macri – potrebbe trovare un vasto consenso nei governi della regione. Potrebbe essere il colpo di grazia definitivo.