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LAVORO Da New York a Passo Corese per Amazon il coronavirus rappresenta un ghiotto business. Da quando il COVID-19 ha colpito il mondo Jeff Bezos e la sua ex moglie hanno visto aumentare la propria ricchezza di azionisti di quasi 32 miliardi, il 60% dei fondi annunciati mercoledì da Conte per aiutare le famiglie e i comuni italiani. Una valanga di dollari prodotta dal lavoro di quasi un milione di dipendenti nel mondo, anche rischiando la vita. Chris Smalls, lavoratore del centro di smistamento di Staten Island a New York, licenziato da Amazon a fine marzo dopo aver organizzato uno sciopero e chiesto misure di prevenzione e trasparenza sul numero dei dipendenti ammalati, ci racconta che per lavorare in Amazon ‘devi essere preparato mentalmente e fisicamente, sennò non duri’ e spiega perché oggi si batte per organizzare i suoi colleghi. Mentre Massimo Pedretti, della FILT CGIL del Lazio, ci racconta come il sindacato è riuscito a entrare nell’hub di Passo Corese, vicino a Roma, uno dei più grandi in Italia e a ottenere da Amazon di modificare l’organizzazione del lavoro per tutelare la salute dei dipendenti. Alle vecchia maniera, scioperando. L’azienda più moderna e innovativa del mondo è anche l’esempio più calzante di come sfruttamento del lavoro e scioperi non siano gingilli novecenteschi per nostalgici della lotta di classe, ma una realtà quotidiana.


USA Licenziato da Amazon: ‘Ora farò il sindacato’

Intervista a Chris Smalls, lavoratore Amazon JFK8 Staten Island, New York

Fino a marzo Chris Smalls era un dipendente modello. Come racconta nell’intervista che gli abbiamo fatto, lavorava per Amazon dal 2015, aveva lavorato duro e, secondo i classici crismi del sogno americano, si era conquistato una posizione nello stabilimento JFK8 di Staten Island, circa 5.000 addetti reclutati a New York o nel vicino New Jersey.

Poi però, quando ancora il COVID-19 sembrava lontano, ha cominciato a vedere i lavoratori del suo reparto ammalarsi, mostrando quelli che i giornali dipingevano come i sintomi caratteristici del coronavirus. E ha deciso di rivolgersi al suo superiore per chiedergli di fare qualcosa. Risposta: Amazon sta seguendo le linee guida indicate dalle autorità, non è il caso di allarmarsi ma, soprattutto, non è il caso di parlarne coi colleghi, perché bisogna evitare di diffondere la paura. Lui ha deciso di parlarne, eccome, di raccontare che probabilmente nell’enorme centro di smistamento di Staten Island c’erano già parecchi lavoratori infetti che avrebbero messo a rischio la salute di tutti (come poi i fatti hanno confermato) e infine di organizzare uno sciopero.

Amazon a quel punto lo ha licenziato, formalmente non per la sua attività sindacale, ma imputandogli di aver violato le regole aziendali sulla quarantena. Secondo l’azienda di Jeff Bezos, infatti, Smalls sarebbe entrato in contatto con un collega positivo e avrebbe dovuto rimanere a casa 14 giorni, prescrizione violata per partecipare al picchetto davanti ai cancelli del magazzino il giorno dello sciopero. Smalls ha impugnato il licenziamento, contestando la decisione aziendale, presa, tra l’altro, senza il conforto di un parere medico, ma ha già dichiarato più volte che pur battendosi per il reintegro, in caso di successo si licenzierebbe il primo giorno, perché non ha intenzione di lavorare più per un’azienda che dà così scarso peso alla vita delle persone.

Nel frattempo la scorsa settimana è arrivato l’annuncio che un dipendente del fulfillment center di Staten Island è morto, mentre sarebbero una trentina i lavoratori positivi ai test. La prima vittima conosciuta della pandemia negli USA è stato un dipendente del deposito di Tracy in California, morto l’1 aprile.  Amazon ha annunciato un piano da 4 miliardi di dollari per mettere in campo misure di prevenzione e protezioni dei propri dipendenti, ma una lettera del Procuratore Generale di New York all’azienda, i cui contenuti sono stati rivelati a fine aprile dal sito npr.org, ha definitole misure di sicurezza prese nei magazzini ‘inadeguate’.

Nel frattempo Smalls ha deciso di utilizzare l’inattesa notorietà per fondare un’organizzazione con l’obiettivo di organizzare i lavoratori di Amazon. E’ stato uno degli organizzatori dello sciopero dei lavoratori essenziali lo scorso primo maggio, di cui abbiamo parlato in una newsletter precedente. Non gli abbiamo chiesto di raccontare per l’ennesima volta la storia del suo licenziamento, ma di concentrarci su questi ultimi aspetti, di parlarci della sua nuova vita di organizzatore sindacale e dei progetti dell’organizzazione che ha da poco fondato.

Sei stato licenziato da Amazon a marzo. Da quanto tempo ci lavoravi?

Sono stato assunto quasi cinque anni fa, nel 2015, e sono partito dal basso, facendo il lavoro di base in magazzino. Ho lavorato duramente e dopo 7-8 mesi sono stato promosso diventando Process Assistant.

Ok. Saltiamo la storia del licenziamento, che è giù stata raccontata da molti, e veniamo a oggi. Qual è il tuo attuale ruolo? Abbiamo letto che hai appena creato un nuovo gruppo di ‘lavoratori essenziali’. E’ così?

Sì, al momento sto organizzando i lavoratori essenziali. Ho creato questa nuova impresa, un’organizzazione che si chiama TCOEW, The Congress of Essential Workers, abbiamo iniziato da poco e vogliamo organizzare il personale di Amazon.

E’ un gruppo di sostegno ai lavoratori? Un sindacato?

No, è una forma di organizzazione che stiamo creando ora e che in pratica è una struttura parasindacale, ma allo stesso tempo è un comitato di attivisti di base controllato dai lavoratori.

Come Amazonians United?

Sì, qualcosa di simile. E’ abbastanza simile a un comitato di attivisti, ma più ampio, sarà un’organizzazione nazionale e basata sul controllo democratico dei lavoratori. Voglio fare in modo che non siamo un sindacato, ma allo stesso tempo che i lavoratori abbiano un ruolo attivo.

Perché molti dipendenti Amazon preferiscono aderire a gruppi come il tuo piuttosto che a un sindacato?

Be’ innanzitutto qui negli Stati Uniti molti sindacati – come dire? – in pratica hanno i loro programmi e poi ovviamente io sono un dipendente di Amazon, ora un ex dipendente, dal 2015 e dunque, data la mia storia aziendale, lavorando con la gente i colleghi vengono da te a esprimere le loro preoccupazioni, perciò ho la sensazione di essere in grado di creare questa organizzazione mettendo i lavoratori in condizione di controllare passo passo ogni decisione come è loro diritto. Vogliamo esser certi che i mezzi di cui disponiamo siano di aiuto rispetto alla pandemia, servano per garantire il salario, la malattia retribuita, le indennità di rischio e vogliamo assicurarci che tutto ciò rientri nelle trattative con l’azienda. Perciò chi meglio di me poteva fare questa cosa ora, visto il sostegno di cui godo in questo momento a livello nazionale e internazionale? Vogliamo che tutto ciò abbia degli effetti positivi su tutti i lavoratori. Ho creato quest’organizzazione proprio per riuscire a fare questa cosa.

Puoi fare un bilancio dell’iniziativa del primo maggio? Siete soddisfatti e quali saranno i prossimi passi?

Sì, quella del primo maggio è stata, possiamo dire, la nostra prima manifestazione ed è stato un successo. Lo stesso giorno un vicepresidente di Amazon si è dimesso proprio in seguito alle polemiche suscitate dai licenziamenti di lavoratori come me. Per noi queste dimissioni sono una vittoria e il prossimo passo è continuare sulla strada dell’organizzazione. Stiamo creando un sito web, cominceremo a lanciare delle petizioni, in modo che la gente possa sottoscriverle e unirsi a noi. Vogliamo organizzare i dipendenti di Amazon e ora è il momento di reclutarli.

Quali sono i problemi che i lavoratori devono affrontare ogni giorno nei depositi di Amazon?

I problemi sono che devi lavorare duramente, le giornate sono lunghe e devi essere mentalmente e fisicamente preparato. Sono 10 ore al giorno e 40 ore a settimana, ma si può arrivare anche a 12 ore al giorno – a seconda di dove lavori – e 50-60 a settimana. Perciò, questo è uno degli aspetti di fondo: se non sei mentalmente e fisicamente preparato non duri. Non dimentichiamoci che questi edifici hanno una superficie di 900.000 piedi quadrati, l’equivalente di 14 campi da football e devi correre su e giù, mettere la merce sugli scaffali, spostare pacchi. Perciò devi mantenerti in salute, fare stretching, ginnastica, come dicevo prima, devi prepararti al lavoro, mentalmente e fisicamente. Questo per quanto riguarda le normali operazioni quotidiane, ma da quando è arrivato il COVID-19 a questa situazione è calato un pericolo di vita e di morte. Su questo aspetto credo che la cosa migliore che avremmo dovuto fare sarebbe stata chiudere il centro minimo due settimane. Sarebbe stato l’unico modo per evitare che il virus si diffondesse e dividere i colleghi infetti da quelli sani. Chiudere per 14 giorni, il periodo di incubazione della malattia, continua a sembrarmi l’opzione più logica.

Quindi il problema riguarda le condizioni di lavoro più che il salario.

Sì, Amazon paga abbastanza bene. Potrebbero fare di meglio, ma pagano abbastanza bene rispetto ad altre aziende dello stesso settore. Ma, certo, potrebbero pagare di più, perché la gente merita di essere pagata per lo sforzo che fa, perché ha bisogno di tempo per recuperare la fatica. E poi la gente andrebbe pagata anche tenendo conto dei soldi che Amazon ha guadagnato in questo periodo: 24 miliardi di dollari. Per questa ragione l’incremento del salario di due dollari l’ora che è stato riconosciuto ai dipendenti in questo periodo dovrebbe diventare permanente.

Nelle interviste che hai rilasciato dopo essere stato licenziato uno dei temi ricorrenti posti dai giornalisti era che, proprio perché siete lavoratori essenziali, fermare il vostro lavoro, sia pure per questioni sanitarie, infliggerebbe un danno eccessivo ai consumatori. Come rispondi?

Comincio dicendo che noi siamo lavoratori essenziali per le nostre comunità. Andiamo a lavorare e ci ammaliamo e poi torniamo a casa e nelle nostre comunità e trasmettiamo la malattia alle nostre comunità e alle nostre famiglie perché spesso non abbiamo sintomi. E proprio perché siamo essenziali dovremmo ricevere un sostegno particolare, perché se non siamo in salute noi non sono in salute le nostre comunità. Il secondo punto è che Amazon non è una necessità. Ci sono ancora negozi e supermercati dove puoi comprare medicinali e tutto ciò di cui hai bisogno. Del resto Amazon è un’azienda nata abbastanza di recente, non c’è sempre stata, per cui la gente dovrebbe ricordarsi che ci sono altri modi per procurarsi le cose. Certo, c’è modo di proteggersi indossando mascherine e guanti e adottando altre precauzioni, ma la gente dovrebbe sapere che fare un ordine ad Amazon significa esporre centinaia di persone a un rischio. Quando il pacco viene consegnato lasciandolo sulla porta di casa è stato toccato da molte mani e quindi mette a rischio anche chi lo riceve. Il mio messaggio ai consumatori è questo.

Hai ricevuto solidarietà dal sindacato o da lavoratori di tipo tradizionale iscritti al sindacato?

Sì, alcuni sindacati mi hanno sostenuto, hanno sostenuto i nostri sforzi per riuscire a scioperare, alcuni di loro ci hanno aiutato a organizzare i picchetti. Ma ho ricevuto sostegno anche a livello nazionale e internazionale. Qui a New York ad esempio ci siamo sostenuti reciprocamente con la NYSNA, l’associazione delle infermiere dello Stato di New York e un organizzatore sindacale del settore aereo mi ha appoggiato sin dal primo giorno.

E a livello internazionale? Hai contatti con lavoratori Amazon in altri paesi?

A livello internazionale sono stato contattato da un gruppo di attivisti sindacali tedeschi abbastanza noti in Germania, ho partecipato a un webinar con 25-26 di loro, ma la lista di gruppi che mi hanno contattato è lunga e tocca paesi come Cuba, Canada, India, Giappone, Sud Africa, Australia, Francia e Spagna e anche l’Italia. Ho cercato di essere disponibile con tutti e ho discusso con gente di tutto il mondo.

Che idea ti sei fatto discutendo con loro? Fuori dagli Stati Uniti i lavoratori Amazon vivono gli stessi problemi?

Negli altri paesi ci sono situazioni migliori di quelle che viviamo qui, perché i dipendenti di Amazon sono sindacalizzati. La differenza principale è questa: negli Stati Uniti i lavoratori sono sfruttati e ricattati perché non sono sindacalizzati né organizzati. In altri paesi, ad esempio la Francia e la Germania, sono riusciti a sindacalizzarsi, qui no e questo è il motivo per cui sto lottando e parlando del problema. Deve succedere anche qui.

Vuoi cogliere l’occasione per dire qualcosa ai lavoratori di Amazon fuori dagli Stati Uniti?

Certamente. Siamo di fronte a una questione di vita e di morte. C’è gente che è morta e altra che sta morendo. Questa pandemia per i lavoratori è un’occasione per mettersi insieme e cercare di cambiare la situazione. Se non lo facciamo non possiamo aspettarci che lo facciano miliardari e governi. Perciò dobbiamo acquisire forza. Se non facciamo noi qualcosa per i lavoratori essenziali rimarrà tutto così com’è. Dobbiamo lottare e ovviamente sarà una battaglia lunga, però credo che abbiamo preso la strada giusta.

E ai colleghi italiani? Hai detto di avere avuto contatti anche col nostro paese…

Sì, alcuni di loro mi hanno mandato un video con un messaggio di solidarietà circa due settimane fa. Perciò, vi sto che loro mi hanno sostenuto, voglio contraccambiare dicendo: ‘Il vostro sostegno mi ha fatto piacere e sono dalla vostra parte e vi esprimo la mia solidarietà. Siamo tutti dalla stessa parte, non importa se siamo in Italia o negli Stati Uniti. In qualunque parte del mondo ci troviamo siamo tutti nella stessa barca’.


ITALIA ‘Come siamo entrati nell’hub di Passo Corese’

Intervista a Massimo Pedretti, capo dipartimento regionale FILT CGIL Lazio

Più di un anno fa, quando intervistammo Cinzia Cacciatore, responsabile Nidil della CGIL di Rieti-Roma Est-Valle dell’Aniene (PuntoCritico080319), ci disse che sindacalizzare i lavoratori dell’hub Amazon di Passo Corese, probabilmente il più grande d’Italia insieme a quello di Castel San Giovanni, vicino a Piacenza, era ‘una sfida’. Qualche mese dopo la CGIL otteneva la sua prima assemblea all’interno dello stabilimento e oggi ha oltre 200 iscritti circa un sesto dei dipendenti a tempo indeterminato. La sfida non è ancora vinta, ma i passi avanti sono evidenti. Ne parliamo con Massimo Pedretti, della FILT CGIL del Lazio, che attualmente segue il comparto, a cui chiediamo innanzitutto di farci un quadro della presenza di Amazon in regione.

Quali sono le principali sedi di Amazon nel Lazio e quanta gente ci lavora?

A Passo Corese abbiamo logistica e stoccaggio, a cui si aggiungono le stazioni di distribuzione a Pomezia, Magliana, Settecamini e Fiano, dove operano corrieri tradizionali, impiegando tra i 300 e i 500 fattorini. Mentre a Passo Corese i dipendenti Amazon sono 1200-1.300 a tempo indeterminato, a cui si aggiungono i lavoratori interinali, di cui però l’azienda continua a rifiutarsi di fornire i numeri. Coi picchi di lavoro conseguenti alla pandemia stimiamo che al momento siano tra i 2.000 e i 2.200.

E per quanto riguarda il futuro?

Per quanto riguarda il futuro è prevista l’apertura di un nuovo magazzino a Colleferro, tra Roma e Frosinone, che dovrebbe partire con circa 500 dipendenti, ma credo che, come a Passo Corese, nel giro di 2-3 anni arriveremo almeno a un migliaio di lavoratori. La differenza rispetto a Passo Corese, dove vengono trattati colli di dimensioni ridotte, sarà che qui verranno manipolati pacchi più voluminosi, come attualmente fanno gli stabilimenti piemontesi di Torrazza e Vercelli. Poi pare che la società stia studiando un’attività di distribuzione alimentare e che sia in atto già una sperimentazione, ma siamo a livello di voci.

Veniamo a Passo Corese. La tua collega Cinzia Cacciatore ci ha raccontato che all’inizio è stato difficile. L’azienda era ostile e i lavoratori intimoriti.

Ripercorriamo la storia dall’inizio. Per un paio d’anni il rapporto con questi lavoratori è passato tramite lo sportello dedicato che avevamo aperto a Passo Corese e alcune assemblee svoltesi nelle nostre sedi. Lì abbiamo incontrato i lavoratori le prime volte. Erano effettivamente intimoriti, c’erano state reazioni da parte dell’azienda e mancava una vera e propria una spinta dal basso alla sindacalizzazione. Poi, lo scorso luglio, abbiamo deciso di chiedere un’assemblea interna per presentare la piattaforma per il rinnovo contrattuale applicato a questi lavoratori, che è quello del commercio, e con questo escamotage siamo entrati nel magazzino e da lì abbiamo mosso i primi passi. A quella prima assemblea, come a quelle successive, hanno partecipato 150-200 lavoratori. Sono arrivate le prime iscrizioni e oggi abbiamo cinque delegati sindacali della CGIL e oltre 200 iscritti, a cui si sommano una cinquantina di lavoratori che hanno fatto l’iscrizione brevi manu, senza comunicazione ufficiale ad Amazon, perché temono ripercussioni. Dopo di noi è entrata in azienda anche la UIL, che ha un piccolo gruppo di iscritti.

Qual è stata in questo anno la reazione di Amazon?

Inizialmente ci ha incontrati semplicemente perché erano obbligati, ma ci hanno detto molto chiaramente: ‘Noi siamo abituati a risolvere i problemi aziendali al nostro interno, per cui voi avete bisogno di noi, mentre noi non abbiamo bisogno di voi’. Col passare del tempo però i rapporti si sono ammorbiditi e proprio ieri commentavamo coi delegati il fatto che all’ultimo incontro ci siamo lasciati con manifestazioni di disponibilità da parte dei loro manager. Quindi oggi, a differenza di ieri, porte aperte, abbiamo risolto diversi problemi, l’azienda quando accoglie le nostre proposte tende a presentarle come proprie scelte, ma a noi, purché si vada incontro alle esigenze dei lavoratori, sta bene così. D’altra parte siamo ancora lontani dall’essere riconosciuti sul piano contrattuale, che significa, ad esempio, poter aprire un tavolo per discutere un contratto integrativo aziendale.

Però non sono mancati i momenti conflittuali. Dopo l’arrivo del coronavirus c’è stato uno sciopero per chiedere maggiore attenzione alle misure di prevenzione…

Sì, perché all’inizio dell’emergenza Amazon ha applicato in maniera abbastanza fredda quanto previsto dal protocollo siglato da governo e sindacati: ai lavoratori non venivano distribuite le mascherine perché non erano obbligatorie, ma soprattutto c’erano reparti dove era impossibile rispettare la distanza di sicurezza. Per farti un esempio in uno di questi reparti se un lavoratore trovava un prodotto difettoso doveva andarlo a depositare in un apposito spazio passando davanti a 5-6 colleghi. Poi c’era il problema delle aree comuni: spogliatoi, mensa e inizialmente anche i cosiddetti briefing motivazionali a inizio turno continuavano a essere svolti. Li hanno sospesi su nostra richiesta, ma sul resto ci hanno detto che più di quanto previsto dal protocollo non potevano fare, perché avrebbe significato stravolgere l’organizzazione complessiva del lavoro.

In tutto il mondo Amazon si trincera dietro alla giustificazione che il lavoro deve andare avanti perché è un servizio essenziale.

Anche in Italia c’è a questo elemento. L’azienda in realtà ha stilato una lista di prodotti ‘meno essenziali’, che vengono retrocessi e messi in seconda fila, ma significa soltanto che invece di arrivare il giorno dopo arrivano dopo due. Per il resto da questo punto di vista va avanti tutto come prima.

E così avete scioperato…

Sì e inizialmente i lavoratori in sciopero fuori dal magazzino si sono trovati di fronte a un vero e proprio schieramento di addetti alla sicurezza, ma dopo un’ora sono arrivati i manager, hanno portato dentro i delegati, hanno discusso i problemi e concordato una serie di misure che andavano incontro alle richieste dei lavoratori: ad esempio sono stati aperti nuovi accessi in modo da separare entrate e uscite, hanno autorizzato temporaneamente l’accesso con zainetti e borse per consentire ai lavoratori di portarsi da mangiare e non accalcarsi nella mensa e hanno cambiato l’organizzazione del lavoro che inizialmente sembrava impossibile da cambiare. Le mascherine che inizialmente non venivano date sono diventate addirittura obbligatorie.

Come spieghi questo cambiamento così repentino?

Da una parte su questi temi della sicurezza Amazon è finita sui giornali. Dall’altro è chiaro che con l’incremento delle vendite che hanno avuto in questi due mesi l’aumento dei costi provocato dalle concessioni che ci ha fatto pur di non bloccare la produzione non è certo un problema.

Lasciando per un attimo da parte l’emergenza sanitaria quali sono i problemi più generali in cui vi siete imbattuti in questo periodo?

All’inizio c’erano problemi di sicurezza sul lavoro che hanno condotto anche a infortuni abbastanza gravi, ma soprattutto le lamentele dei dipendenti si concentravano sulla gestione autoritaria. Alcune lavoratrici ci hanno raccontato addirittura di aver dovuto mettere per iscritto di essersi allontanate dalla postazione per andare negli spogliatoi a prendere un assorbente. Inoltre l’intensità del lavoro rispetto all’inizio è aumentata in maniera esponenziale: all’inizio se facevi 200 colli l’ora eri il più bravo, oggi se ne maneggi 300 sei tra i più scarsi. Ed è una corsa al rialzo a cui contribuiscono diversi fattori. Da un lato se normalmente fai 200 e un giorno fai 250 l’azienda ne deduce immediatamente che allora puoi arrivare a 270. Dall’altro c’è la spinta dei lavoratori interinali, che comprensibilmente vogliono fare bella figura per passare a tempo indeterminato, e contribuiscono ad alzare i ritmi.

Nell’intervista che gli abbiamo fatto ieri Chris Smalls ci ha spiegato che per essere preparati mentalmente e fisicamente è necessario addirittura un vero e proprio allenamento fisico.

Il sito di Passo Corese è uno dei più avanzati a livello tecnologico, per cui i lavoratori non devono correre come in altre situazioni, perché i pacchi li portano i robot, ma in ogni caso fare lo stesso movimento per 8 ore crea problemi e la cosiddetta Job Rotation, di cui Amazon si vanta, non funziona così bene come sembra. In particolare nei periodi di picco dell’attività, infatti, la rotazione delle mansioni non viene autorizzata per tutti i dipendenti per non rallentare le operazioni.

Per quanto riguarda i contratti?

Quando siamo arrivati c’erano molte incongruenze tra l’inquadramento contrattuale dei dipendenti e le mansioni che svolgevano effettivamente e per questo abbiamo chiesto alla direzione di intervenire. E così Amazon prima di Natale ha comunicato aumento retributivo, che altro non era che il passaggio di livello necessario a risolvere quelle incongruenze. Il problema quindi è stato in parte risolto. Rimane insoluto per i cosiddetti specialisti di processo, inquadrati allo stesso livello di chi sta sui rulli a impacchettare. In questo caso Amazon, pur di non riconoscere loro il livello superiore, li sta ‘retrocedendo’, affidando nuovamente loro delle lavorazioni manuali, qualcosa di simile a un demansionamento. Tieni conto che  applicare a questo lavoro le declaratorie contrattuali della logistica per definire i livelli di inquadramento sulla base delle mansioni svolte è molto complicato.

In Italia ormai Amazon ha molte sedi e, come si è visto, sono attese nuove aperture. Come sindacato come siete organizzati: avete un coordinamento nazionale? Quando apre una nuova struttura in una città siete pronti a spiegare ai vostri colleghi che esperienza avete fatto nei magazzini in cui siete già presenti?

Sì, esiste un coordinamento nazionale Amazon, di cui fanno parte le tre categorie coinvolte, a seconda del contratto applicato, cioè FILT (trasporti), FILCAMS (commercio), Nidil (interinali) e la CGIL confederale e che si riunisce ogni 1-2 mesi. Ovviamente Amazon si mostra recalcitrante ad autorizzare tavoli negoziali a livello nazionale, mentre a livello locale, se il sindacato se è presente tra i lavoratori, è costretta in qualche modo a riconoscerlo. Il coordinamento riguarda anche le iniziative sindacali e le nostre richieste. Ad esempio in Piemonte ci sono stati tre scioperi sulla sicurezza come quello a Passo Corese. Qui la vertenza si è conclusa prima ma i temi erano gli stessi.

E a livello europeo?

Negli ultimi mesi ci sono state manifestazioni anche in Spagna e in Francia, dove addirittura sono stati chiusi degli stabilimenti per ragioni di igiene e sicurezza legati alla pandemia. Noi abbiamo un’interlocuzione con altri sindacati presenti in Amazon attraverso la CGIL nazionale. Su questo punto devo dire che all’inizio, quando osservavo le prime mobilitazioni a livello europeo, pensavo che qui in Italia fossimo quelli più indietro. In realtà poi ho capito che più o meno è la stessa storia dappertutto. Anche nei paesi dove Amazon è presente da più anni i problemi sono sostanzialmente gli stessi.

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