Secondo l’ultimo rapporto dell’OIL la pandemia ha causato una riduzione o una crescita più lenta degli stipendi in due terzi dei paesi per i quali erano disponibili dati ufficiali. Una simulazione degli autori sui potenziali effetti di un rafforzamento dello strumento del salario minimo indica che l’Italia, tra i paesi UE che non ne dispongono, ne trarrebbe i maggiori benefici.
ELENA RUSCA, Ginevra, 2 dicembre 2020
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha presentato il nuovo “Global Wage Report 2020-2021”, il rapporto sull’andamento dei salari nel mondo. Questa edizione era sottotitolata “Wages and minimum wages in the time of Covid-19” (Salari e salari minimi nell’epoca del Covid-19). La tendenza generale fotografata dal Rapporto è quella di una stagnazione dei salari che il covid-19 ha semplicemente amplificato. Anche prima dello scoppio della pandemia, infatti, centinaia di milioni di lavoratori in tutto il mondo venivano pagati meno del salario minimo, pur con dinamiche contraddittorie. Mentre tra il 2008 e il 2019 in Cina i salari reali sono più che duplicati, nelle economie del G20 si registrano tendenze disomogenee. Le retribuzioni sono cresciute del 22% in Corea del sud e del 15% in Germania, mentre sono diminuite in Italia, in Giappone e nel Regno Unito.
FIGURA 1: salari medi reali nei paesi del G20 (2008-2019)
La pandemia ha aggravato la situazione e gli effetti più negativi della crisi si sono fatti sentire sulle retribuzioni delle donne e dei lavoratori con salari inferiori. Inoltre, analizzando i dati, è emerso che se nei due terzi dei paesi analizzati si è registrata una diminuzione o una crescita più lenta dei salari medi, anche l’aumento del dato registrato in un terzo dei paesi che hanno fornito i dati è dovuto all’effetto distorsivo della perdita del lavoro da parte di milioni di lavoratori sottopagati sul valore del salario medio. In periodi di crisi, infatti, fanno notare i ricercatori dell’OIL, il valore del salario medio può variare per diverse ragioni, tra cui il cosiddetto “effetto composizione” della forza-lavoro. In Brasile, Canada, Francia, Italia e Stati Uniti, ad esempio, tra il 2019 e la prima metà del 2020 i salari medi sono cresciuti in modo marcato contestualmente alla massiccia espulsione di lavoratori con retribuzioni più basse. Al contrario in Giappone, Corea del sud e Regno Unito si è registrata una pressione inversa.
FIGURA 2: comparazione tra crescita dei salari nominali e reali (2019-2020). La crescita dei salari nominali (cioè al lordo dell’inflazione) nel 2020 nei paesi del G20 è legata in larga misura all’effetto composizione. Questo spiega anche il fatto che mentre nel 2019 i salari reali sono aumentati circa la metà di quelli nominali, nel 2020 la differenza diminuisce: i salari più alti infatti recuperano meglio l’inflazione, che peraltro in parecchi settori ristagna o diminuisce a causa della pandemia. Fa eccezione la Corea del sud, colpita in modo relativamente leggero dalla pandemia – 11 decessi per milione di persone, contro gli ormai quasi mille dell’Italia – dove nel 2019 la crescita dei salari reali quasi eguagliava quella nominale, mentre quest’anno è restata al palo (non va comunque tralasciato l’impatto della pandemia sulle esportazioni).
Nei paesi in cui sono state adottate misure energiche per preservare l’occupazione gli effetti della crisi sono stati avvertiti principalmente nei termini di un taglio dei salari, piuttosto che di una massiccia perdita di posti di lavoro. Il World Wage Report 2020-2021 inoltre indica che la crisi non ha colpito tutti i lavoratori allo stesso modo. Le donne hanno sofferto più degli uomini. Le stime basate su un campione di 28 paesi europei mostrano che, senza i sussidi, nel secondo trimestre del 2020 la perdita salariale per le donne sarebbe stata dell’8,1% contro il 5,4% degli uomini. Alla base di tale discrepanza c’è il fatto che le lavoratrici hanno subito una riduzione del numero di ore lavorate del 6,9% contro il 4,7% dei lavoratori.
FIGURA 3: perdita % di salario per paese e per genere tra i trimestri I e II 2020
La crisi ha anche inferto un duro colpo ai lavoratori meno pagati. I meno qualificati hanno perso più ore di lavoro rispetto a quelli che svolgono mansioni manageriali o comunque di livello superiore. Utilizzando i dati di un gruppo di 28 paesi europei il rapporto spiega che senza i sussidi il 50% meno pagato dei lavoratori (cioè coloro che percepiscono meno del salario mediano) avrebbe perso il 17,3% del salario, contro una perdita media del 6,5% per tutti i lavoratori. I sussidi hanno consentito di coprire il 40% di tale perdita e di ridurre l’ampiezza delle disuguaglianze, essendo stati destinati in particolare ai lavoratori a basso reddito.
Secondo Guy Ryder, Direttore Generale dell’OIL “La crescita della disuguaglianza dovuta alla crisi del Covid-19 potrebbe lasciare un devastante squilibrio tra povertà e instabilità sociale ed economica di enormi proporzioni. La nostra strategia di recupero deve essere incentrata sulle persone. Abbiamo bisogno di politiche salariali adeguate che tengano conto della sostenibilità dell’occupazione e delle imprese, che affrontino anche le disuguaglianze e la necessità di sostenere la domanda. Se vogliamo ricostruire pensando a un futuro migliore, dobbiamo anche porci domande scomode, ad esempio il motivo per cui così spesso occupazioni di grande valore sociale, come badanti e insegnanti, sono sinonimo di bassa retribuzione”.
Il Rapporto include anche un’analisi dei sistemi di salario minimo, un istituto che potrebbe rappresentare un fattore determinante per ottenere una ripresa sostenibile ed equa. Attualmente il 90% degli Stati membri dell’OIL ha una qualche forma di salario minimo, metà nella forma di un salario minimo nazionale fissato per legge e metà con salari minimi differenti nei diversi settori fissati dalla contrattazione collettiva. Tuttavia, anche prima dell’inizio della pandemia CoViD19, a livello globale, 327 milioni di persone (il 19% della forza-lavoro complessiva) guadagnavano una cifra pari o inferiore al salario minimo. Tra questi 266 milioni di persone – il 15% dei lavoratori stipendiati nel mondo – guadagnano meno del salario minimo o perché non sono coperti dal salario minimo o perché i loro datori non lo applicano. Si tratta, in particolare, di lavoratori agricoli e domestici. Le donne che ricevono il salario minimo o meno sono 152 milioni, il 47%, mentre rappresentano il 39% di chi guadagna più del salario minimo.
La prevalenza di donne, under 25 e lavoratori precari tra i percettori del salario minimo conferma che si tratta di un importante strumento di riduzione delle diseguaglianze. Secondo l’OIL la capacità del salario minimo di svolgere tale funzione si basa su tre fattori: l’efficacia, cioè il numero dei lavoratori coperti e a cui viene effettivamente pagato il salario minimo; l’adeguatezza, cioè il rapporto tra importo e costo della vita; infine la composizione della forza-lavoro, in particolare se i lavoratori pagati meno sono dipendenti o autonomi e se vivono o meno in famiglie anch’esse a basso reddito. Una simulazione effettuata dai ricercatori dell’OIL in base ai dati di 41 paesi indica che aumentando l’efficacia del salario minimo e incrementandone l’importo fino a due terzi del salario mediano (in Italia nel settore privato non agricolo il salario mediano lordo è 11,2 euro) potrebbe ridurre le diseguaglianze di una quota compresa tra il 3% e il 10%.
FIGURA 4: potenziale impatto di un salario minimo per tutti (blu) e a 2/3 del salario mediano (rosso) nei paesi europei che non hanno il salario minimo per legge, misurato tramite (a) indice di Palma (rapporto tra il reddito del 10% più ricco e del 40% più povero) e (b) coefficiente di Gini (varia tra 0, uguaglianza perfetta della ricchezza, e 1, tutta la ricchezza posseduta da una sola persona). Si noti che l’Italia è il paese che avrebbe i maggiori benefici.
FIGURA 5: come sopra ma in questo caso si misura l’impatto su (a) la diminuzione della povertà relativa (cioè riparametrata sul reddito pro capite del paese) delle famiglie e (b) sulle famiglie che registrerebbero un aumento del reddito. In base alla simulazione dell’OIL l’Italia con l’introduzione di un salario minimo a queste condizioni potrebbe ridurre quasi del 15% la povertà relativa e tra il 20% e il 22% delle famiglie vedrebbero aumentare il proprio reddito.
I dati dell’OIL indicano che il salario minimo nei paesi sviluppati si colloca mediamente intorno al 55% del salario mediano (con una fascia di oscillazione tra il 50% e il 67%), nei paesi in via di sviluppo intorno al 67% (con una fascia di oscillazione tra il 16% del Bangladesh e il 147% dell’Honduras). Nel 2019 il salario minimo mediano a livello mondiale è stato pari a 496 dollari al mese (a parità di potere d’acquisto) e alcuni paesi hanno fissato il salario minimo al di sotto della soglia di povertà. Uno degli aspetti cruciali per garantire l’adeguatezza del salario minimo è che il suo importo venga aggiornato di frequente. In realtà però nel periodo 2010-2019 solo il 54% dei paesi lo ha fatto almeno ogni due anni. La pandemia, inoltre, ha alimentato una tendenza a posticipare l’aumento del salario minimo nei paesi che non lo aggiornano regolarmente.
“Un salario minimo adeguato salva il lavoratore da una paga bassa e riduce le disuguaglianze”, ha detto Rosalía Vázquez Álvarez, uno degli autori del rapporto. “Tuttavia, rendere efficaci le politiche del salario minimo richiede un insieme completo e inclusivo di misure. Significa ottenere una maggiore conformità, estendere la copertura a più lavoratori, stabilire un salario minimo a un livello adeguato e aggiornarlo, in modo che il lavoratore e la famiglia possano avere un tenore di vita migliore. Nei paesi in via di sviluppo ed emergenti, il miglioramento della conformità richiederà il passaggio dei lavoratori dal settore sommerso a quello regolare”.