I rischi della polveriera ucraina
Persino la stampa americana e israeliana offrono maggiori spunti di riflessione dell’asfittica e faziosa informazione italiana. Su Foreign Policy un contributo di Tarek Megerisi, analista dello European Council on Foreign Relations, mette in guardia dalle possibili conseguenze dell’armamento selvaggio di Kiev tramite l’invio di volontari e di sistemi d’arma tra i più sofisticati, che al loro ritorno potrebbero trasformarsi in terroristi interni, oltre che trasformare l’Ucraina in un hub per la proliferazione di armi in tutto il mondo. Senza contare la possibile trasformazione dell’Ucraina in una società militarizzata.
A questo proposito il quotidiano israeliano Haaretz, considerato una delle voci progressiste del paese, cita le inquietanti dichiarazioni di Zelenski secondo cui l’Ucraina del dopoguerra prenderà a modello lo Stato securitario israeliano, coi locali pubblici presidiati da militari e la popolazione armata.
Nei nostri salotti televisivi si discute dell’invio di armi e dell’ingresso di Kiev nell’UE senza che a questi rischi e a queste dichiarazioni d’intenti si faccia il minimo cenno. Per questo abbiamo deciso di proporre ai nostri lettori la traduzione di questi testi.
Segnaliamo che domenica il sito Avantilive, direttore editoriale Bobo Craxi, ha pubblicato alcune immagini di mortai da 120 mm italiani catturati dalle truppe di Mosca agli ucraini, che oggi sono dunque nelle disponibilità dei soldati russi (Avantilive010522).
Non trasformate l’Ucraina nella prossima Siria/Libia
Inondando il paese di armi e foreign fighters i leader occidentali potrebbero aprire la strada a futuri conflitti.
TAREK MEGERISI, Foreign Policy, 27 aprile 2022
Il giorno in cui la Russia ha invaso l’Ucraina per il mondo occidentale ha segnato uno spartiacque, un attimo che ha evocato la percezione di trovarsi ad affrontare una lotta storica, un’emergenza, addirittura un pericolo esistenziale. Dopo tutto si è trattato di fare i conti col ritorno dello spauracchio del XX secolo, col tentativo di dividere nuovamente l’Europa ridisegnandovi la Cortina di ferro. Tutti questi stimoli emotivi hanno dato alla lotta dell’Ucraina contro la Russia una patina di romanticismo a cui gli occidentali si sono abbandonati volentieri.
La risposta politica conseguente è stata elaborata guardando agli eventi attraverso le lenti dell’emergenza e del romanticismo. Sono state inviate armi, dei giovani si sono messi in viaggio da regioni remote per raggiungere il fronte ucraino e la militarizzazione di una popolazione di 41 milioni di abitanti è stata salutata dagli applausi, mentre si pianificava l’ingresso a spron battuto di Kiev nell’UE. Un atteggiamento che non fa altro che innalzare la tensione. Questo mese gli USA invieranno droni, elicotteri e obici per rafforzare la difesa del Donbass, mentre altri alleati si preparano a inviare piattaforme di lancio per missili antiaerei, artiglieria e forse persino aerei da caccia a sostegno delle azioni militari ucraine.
È una situazione stranamente simile ai tempi in cui le rivoluzioni popolari contro l’ex leader libico Muammar Gheddafi e il presidente siriano Bashar al-Assad divennero violente e le misure adottate per sostenere quei pur benintenzionati rivoluzionari cominciarono a essere dettate da un approccio speranzoso, giustizialista ed emergenziale privo della prudenza e della pianificazione dovute. Oggi l’effetto di questo approccio, così come allora in Medio Oriente e in Nord Africa, potrebbe essere che oggi l’Occidente stia tessendo la trama di un decennio di crisi future per mancanza di pianificazione.
Già prima che la Russia attraversasse il Rubicone il mondo occidentale stava inviando in Ucraina il necessario per coltivare la speranza di poter resistere all’incombente tempesta. Sistemi d’arma avanzati, come i leggendari missili anticarro Javelin e i missili antiaereo Stinger, sono stati forniti in quantità e pile di bancali di armi leggere e munizioni sono state caricate sugli aerei diretti in Ucraina, insieme a mezzi blindati, dispositivi radio di ultima generazione e tutto il necessario per garantirsi la superiorità in una guerra moderna. La scala e la velocità dei ponti aerei per la fornitura di armi a Kiev segnano probabilmente un record nella storia contemporanea.
Questa politica è stata dettata da due imperativi: fornire agli ucraini il necessario per vanificare la supremazia tecnologica russa prima che sia troppo tardi (ipotizzando che l’esercito russo si dimostrasse più efficace di quanto non sia stato realmente). La stessa logica si ripropone ora che l’Ucraina lotta per sventare il piano B della Russia: una massiccia invasione della regione del Donbass. I primi successi russi in questa seconda fase suggeriscono l’idea che Mosca stia imparando dagli errori del maldestro Blitzkrieg di febbraio e la resa di intere unità a Mariupol indicano che le risorse ucraine scarseggiano. Perciò gli aiuti stanno crescendo sia per quantità sia per qualità e intanto il governo americano e i suoi alleati si preparano a trasferire in Ucraina anche armi pesanti.
Sebbene la logica di queste iniziative sia certamente valida, essa è manchevole. Armi come i missili Javelin e Stinger di solito sono soggette a regole molto rigide, con condizioni di impiego e monitoraggio stringenti a causa della loro devastante potenza, di cui oggi i russi si stanno accorgendo. Persino un alleato di lunga data degli americani come la Francia si è ritrovato in imbarazzo e indagato nel 2019, quando si è scoperto che aveva impropriamente messo in campo i Javelin nelle sue operazioni clandestine in Libia.
Del resto l’Europa Orientale è già oggi una famigerata fonte di proliferazione di armi dirette ai diversi conflitti in atto nel mondo e la stessa Ucraina in questo senso ha brutti trascorsi, che in passato hanno seminato tensioni nel dibattito interno alla NATO sull’accesso agli armamenti. Oltre al coinvolgimento diretto nel traffico d’armi illegale l’Ucraina e la sua vicina Moldavia nel 2019 sono state segnalate come intermediari che hanno agevolato massicci trasferimenti di armi tra paesi, ad esempio dalla Turchia e dagli Emirati Arabi Uniti a entrambi i contendenti nella Seconda guerra civile libica, in diretta violazione dell’embargo delle Nazioni Unite.
In questo modo, veicolando l’equivalente di miliardi di dollari di sistemi d’arma all’avanguardia verso un paese largamente coinvolto nella proliferazione di armi e dove i meccanismi di regolazione e di sorveglianza verranno danneggiati dalla guerra, il mondo occidentale potrebbe aver abbattuto la tessera iniziale di un domino che finirà per permettere ai futuri gruppi terroristi e ad altri soggetti non statuali di approvvigionarsi di Javelin e di Stinger una volta che in Ucraina le acque si siano calmate.
Ma l’Occidente non ha mandato in guerra solo i suoi armamenti, vi ha inviato anche i propri cittadini. E anche se si tratta di un fenomeno diverso dai trasferimenti di armi autorizzati dagli Stati, in quanto si tratta di individui che in larga misura andando a combattere fanno una scelta soggettiva e si pagano il viaggio, i paesi occidentali stanno facendo poco per fermare o dissuadere i propri concittadini dal partire. Osservare così tanti giovani che si recano all’estero per combattere per una giusta causa esprimendo soltanto flebili ammonimenti per temperare il loro entusiasmo ancora una volta ci ricorda i primi giorni delle rivoluzioni in Libia e in Siria.
Il 6 marzo erano in viaggio per l’Ucraina circa 20.000 foreign fighters. È un numero considerevole di combattenti, se teniamo conto che il conflitto ultradecennale in Siria ha attratto un numero di persone stimato in 40.000. E come hanno dimostrato Siria e Libia ciò potrebbe creare significativi problemi in termini sia legali che di sicurezza. Molti di questi combattenti sono animati da narrazioni nazionaliste, altri sono addirittura estremisti di destra (anche se la propaganda russa esagera le dimensioni di quest’ultimo aspetto).
I combattenti di ogni risma mossi da motivazioni ideologiche hanno la tendenza a radicalizzarsi e la guerra è un’esperienza che inquina la salute mentale e il senso morale di chi la sperimenta. Sarà difficile monitorare la diffusione di questi ex combattenti al loro ritorno in Europa e negli USA, così come la possibilità che essi portino con sé armi leggere. In particolare il ritorno di estremisti di destra aggraverà questo fenomeno e potrebbe provocare crescenti tensioni se questi utilizzeranno l’esperienza maturata per addestrare, reclutare forze fresche e pianificare atti di violenza. Ciò rappresenterà un ulteriore peso per servizi sanitari e di sicurezza già sotto pressione che saranno chiamati ad affrontare il fenomeno.
Inoltre si tratta di un problema destinato ad aggravarsi esponenzialmente quanto più durerà il conflitto e la società ucraina sarà armata e militarizzata pesantemente. Perciò l’Europa dovrebbe programmare insieme all’Ucraina come aiutare l’amministrazione Zelensky a gestire la politica di guerra e prevenire una persistente militarizzazione della sua vita sociale e politica così da evitare che Putin, pur senza vincere sul campo di battaglia, possa riuscire a uccidere ogni speranza di vedere un’Ucraina liberale e democratica.
Queste risposte politiche all’invasione dell’Ucraina, pur comprensibili, oggi fanno sì che il vaso di Pandora dei potenziali effetti indesiderati sia stato aperto. Ciò significa che le azioni occidentali potrebbero mettere le migliori armi europee e americane nella mani di futuri estremisti, innescare una nuova ondata di terrorismo interno o contribuire alla creazione di uno Stato fortemente militarizzato nel cuore dell’Europa orientale.
Imperativi morali e strategici ci dicono che l’occidente deve sostenere l’Ucraina. Ma i leader occidentali dovrebbero farlo con la saggezza di chi sa riconoscere espressamente l’esigenza di dotarsi di strumenti legali, di monitoraggio e di supporto necessari a mitigare i numerosi problemi aggiuntivi che i trasferimenti di armi alla fine potrebbero creare e, così facendo, impedire che le buone intenzioni di oggi conducano a dei contraccolpi domani.
Tarek Megerisi, è analista specializzato in Nord Africa e Medio Oriente allo European Council on Foreign Relations.
Zelenski: “Ucraina postbellica imiterà Israele, non sarà europea e liberale”
Soldati nei cinema e nei supermercati e popolazione armata nell’Ucraina del futuro, preannuncia Zelenski ai giornalisti. Il presidente cerca di immaginare come potrebbe apparire la precaria Ucraina del dopoguerra.
SAM SOKOL, Haaretz, 5 aprile 2022
L’Ucraina diventerà una “grande Israele pur con un proprio volto”, ha dichiarato il presidente ucraino Volodymir Zelenski martedì, affermando che il suo paese a seguito dell’invasione della Russia intende imitare lo Stato securitario di Israele.
“L’Ucraina non sarà certamente quella che volevamo all’inizio. Sarebbe impossibile. Un paese assolutamente liberale, di tipo europeo: non sarà così. Al contrario, si baserà sulla forza che emanerà da ogni casa, da ogni edificio, da ogni persona” ha detto Zelenski ai rappresentanti dell’informazione ucraina durante una conferenza stampa.
“Diventeremo una ‘grande Israele’ con un proprio volto. Non c’è da sorprendersi se avremo membri delle forze armate o della Guardia nazionale nei cinema e nei supermercati e se la popolazione sarà armata. Ho fiducia che il tema della sicurezza sarà al primo posto nel prossimo decennio. Anzi ne sono sicuro”.
Tuttavia queste misure non verranno utilizzate per minare la democrazia ucraina, ha aggiunto, dichiarando che “in Ucraina uno Stato autoritario è impraticabile”.
“Uno Stato autoritario si risolverebbe in un’altra Russia. La gente sa per cosa sta combattendo” ha detto.
“È un linguaggio ‘non nuovo’ ha osservato l’ambasciatore israeliano in Ucraina Michael Brodski, affermando che lo Stato ebraico “ha sempre svolto il ruolo di modello per l’Ucraina, almeno in termini di sicurezza e di autodifesa”.
“Gli israeliani hanno vissuto circondati da nemici per tutta la loro storia e l’Ucraina farà lo stesso”, ha dichiarato ad Haaretz l’ambasciatore Yevgen Korniychuk, commentando le parole di Zelenski e sottolineando che Kiev non sente di potersi affidare a garanzie di sicurezza internazionali come quelle ricevute dall’Occidente dopo il suo disarmo nucleare nel 1994.
“Ora dobbiamo mantenere forze armate più consistenti per difenderci dai nostri due vicini ed è per questo che la nostra classe dirigente al momento è dell’idea che qualunque cosa accada il quadro della sicurezza in Ucraina sarà simile a quello di Israele. Vedrete più gente armata in strada, anche quando la situazione diventerà più tranquilla di quanto è oggi”.
Lo scorso dicembre, mentre Mosca ammassava truppe sul confine ucraino, Zelenski aveva paragonato in modo più esplicito l’odierna lotta contro la Russia al pluridecennale conflitto di Israele coi suoi vicini arabi.
In un messaggio registrato al Forum ebraico di Kiev, un convegno annuale organizzato della comunità ebraica ucraina, Zelenski, che è lui stesso ebreo, ha dichiarato che Israele è “spesso di esempio per l’Ucraina” e che “sia gli ucraini sia gli ebrei amano la libertà” e lavorano “allo stesso modo affinché il futuro dei nostri Stati diventi quello che vogliamo e non quello che altri vogliono per noi”.
Zelenski ha avuto un atteggiamento molto critico nei confronti di Israele per il suo atteggiamento rispetto alla guerra e il suo ambasciatore in Israele alcuni giorni dopo l’inizio dell’invasione ha detto ai giornalisti che il presidente, da ebreo, “ha più ampie aspettative circa i possibili aiuti da parte di Gerusalemme”.
Dallo scoppio del conflitto in Ucraina Israele si è mossa in modo cauto sul filo della diplomazia nel tentativo di soddisfare le richieste americane di condannare l’azione russa e allo stesso tempo di non alienarsi la collaborazione di Mosca, che permette all’aviazione israeliana di colpire obiettivi iraniani in Siria.
Zelenski ha spazzato via questi timori durante il messaggio rivolto alla Knesset in video conferenza, chiedendo che Israele armi il suo paese e che rimuova le restrizioni all’immigrazione di ucraini imposte all’inizio della guerra.
“Di che si tratta? Di mancanza di sensibilità? Di calcolo? O di una mediazione svolta senza schierarsi con una delle parti? Sarete voi a rispondere, ma voglio sottolineare che l’insensibilità uccide, che i calcoli possono essere errati e che potete fare da mediatori tra due Stati, ma non tra il bene e il male”, ha detto.
Brigate partigiane o Brigata ebraica o dell’uso politico della storia
“Chi controlla il passato controlla il futuro” (G. Orwell).
AMEDEO ROSSI, 25 aprile 2022.
Dopo la pausa forzata dovuta all’epidemia di COVID-19, è ripresa come ogni anno la polemica relativa alla presenza di bandiere palestinesi e di bandiere israeliane durante le commemorazioni del 25 aprile.
Un libro scritto dallo storico Gianluca Fantoni e pubblicato nel gennaio scorso (Storia della Brigata ebraica. Gli ebrei della Palestina che combatterono in Italia nella Seconda guerra mondiale, Einaudi, 2022, 27 euro) rappresenta probabilmente il saggio più completo e aggiornato sull’argomento e aiuta a fare chiarezza su una serie di questioni anche di carattere politico generale. Non a caso è stato quasi ignorato, almeno nelle pagine in rete. Le recensioni che ho individuato in rete si trovano sul sito filoisraeliano “Informazione corretta”, ricavata dal quotidiano online di destra La Ragione, che distorce palesemente il contenuto del libro, e su Moked – Portale dell’ebraismo italiano lo storico David Bidussa ha scritto una nota brevissima quanto omissiva. Al momento brillano per la loro assenza tutti i principali giornali nazionali.
Il saggio è diviso in due parti: la prima ricostruisce le varie vicende che portarono alla costituzione della brigata, la sua partecipazione ad alcuni eventi bellici in Italia e le sue attività successive sia nel nostro Paese che in altri Stati europei (principalmente Austria e Belgio); la seconda si occupa della riesumazione di quella vicenda dopo oltre tre decenni in cui era stata ignorata e le ragioni per cui in Italia essa ha provocato un accanito dibattito e accese polemiche.
1. La storia della Brigata ebraica.
I fatti relativi alla presenza della Brigata ebraica in Italia durante il conflitto e nel periodo immediatamente successivo spiegano la ragione del lungo oblio che ne ha oscurato la memoria. La sua consistenza numerica (4.000 militari, rispetto ad esempio ai circa 25.000 brasiliani, 45.000 polacchi o ai 105.000 neozelandesi, per citare solo qualche esempio) e il fatto che abbia partecipato al conflitto solo a partire dal marzo 1945, hanno sicuramente avuto un peso notevole. Lapidi e targhe commemorative nei luoghi degli scontri a cui la brigata partecipò furono per lo più collocate per iniziativa del governo israeliano. Il ritardo nella sua partecipazione agli eventi bellici fu dovuto a varie ragioni. Il governo del Mandato britannico, che controllava il territorio palestinese, diffidava della dirigenza sionista e resisteva alle pressioni perché fornisse armi e addestramento agli ebrei palestinesi, sapendo che la loro dirigenza era intenzionata a porre fine al suo controllo su quel territorio. Furono le insistenze americane, in particolare della lobby filo-sionista, che già allora aveva una notevole influenza su Washington, a spingere il governo di Churchill ad accettare. D’altra parte, a differenza della narrazione propugnata dagli attuali sostenitori della Brigata ebraica, anche tra i dirigenti sionisti le opinioni erano contrastanti. Lo stesso Ben-Gurion era restio ad accettare che una parte, anche se ridotta, di giovani abili per il servizio militare venisse arruolata nell’esercito britannico e fosse mandata a combattere lontano dalla Palestina. Temeva infatti che, nel caso della ripresa delle ostilità da parte degli arabi, all’yishuv (cioè alla comunità ebraica in Palestina) venissero a mancare forze indispensabili. D’altra parte l’accettazione da parte degli inglesi di un reparto formato da ebrei palestinesi rappresentava un riconoscimento indiretto della struttura prestatale che il movimento sionista stava costruendo all’interno del territorio del Mandato. Il risultato fu un compromesso al ribasso: non solo le forze della Brigata furono numericamente ridotte, ma una parte dei suoi effettivi, a cominciare dagli ufficiali superiori, era composta da non-ebrei, principalmente britannici. Inoltre non tutti gli ebrei erano palestinesi, ma alcuni provenivano anche da altri Paesi, soprattutto dalla Gran Bretagna.
Aver partecipato alla campagna d’Italia quando ormai le truppe tedesche erano in ritirata ridusse inoltre l’impatto della Brigata ebraica sul teatro di guerra italiano. Essa partecipò sostanzialmente a due scontri, in Romagna e poi in Emilia, mentre per il resto il suo apporto fu assolutamente trascurabile. Di fatto la sua principale attività si svolse dopo la fine della guerra e consisté nell’assistenza ai profughi ebrei sopravvissuti alle persecuzioni e nel tentativo di portare quelli atti alle armi in Palestina per ridurre il divario demografico rispetto alla popolazione arabo-palestinese e in vista dell’inevitabile scontro armato con quest’ultima. Oltre a questa missione, alcuni componenti della brigata furono protagonisti di vendette contro ex-SS e anche civili tedeschi per le terribili sofferenze e stragi perpetrate dai nazisti a danno degli ebrei.
In base a quanto risulta dal libro sarebbe più sensato rivendicare la memoria dei molti ebrei, per lo più non sionisti, che parteciparono alla Resistenza, in Italia e altrove. E ci furono, totalmente dimenticati, anche arabo-palestinesi che combatterono e morirono lottando contro fascisti e nazisti nelle file dell’esercito inglese.
2. A volte ritornano.
La parte più interessante e significativa del libro è la seconda, che riguarda la riscoperta della Brigata in tempi recenti. Come scrive l’autore, parlando di questa vicenda “si poteva rilanciare una lettura sionista della storia della Palestina”. Si tratta a suo parere di un tipico caso di uso politico della storia: “La Brigata ebraica serviva infatti a rilanciare la storiografia israeliana classica, essenzialmente basata su una lettura sionista della storia del mandato [britannico] palestinese e della fondazione di Israele.” In questo modo la narrazione israeliana, a prescindere dagli eventi storici, intende stabilire una connessione diretta tra passato e presente in funzione propagandistica.
Il recupero della memoria della Brigata, ricorda Fantoni, è avvenuto prima in area anglosassone, tuttavia è stato in Italia che ha avuto le maggiori ripercussioni nel dibattito pubblico. Per quali ragioni? In primo luogo per ragioni interne. La fine della Prima Repubblica ha dato il via ad un “uso sfacciato della storia nell’agone politico.” Basti pensare alle varie commemorazioni che hanno ridefinito le occasioni di celebrazione riscrivendo il nostro passato, come il giorno della Memoria, il giorno del Ricordo e, ultima ma non meno problematica, la “Giornata nazionale della memoria e del sacrificio alpino”, il 26 gennaio di ogni anno, data della battaglia di Nikolajewka. Come ha giustamente sottolineato Alessandro Portelli su Il Manifesto, l’ingloriosa sconfitta dell’aggressione nazi-fascista contro l’URSS è stata elevata a data da celebrare da un voto praticamente unanime, confermando la volontà di quasi tutto lo spettro politico italiano di riscrivere la storia in funzione di una presunta pacificazione nazionale. Se a destra si cerca di far dimenticare le proprie colpe e rifarsi un’immagine accettabile, a “sinistra” c’è il chiaro tentativo di cancellare il proprio passato filo-sovietico e la conseguente avversione nei confronti dell’atlantismo filo-americano.
Le polemiche sulla Brigata ebraica si inquadrano in questo contesto. La destra, vecchia (Fratelli d’Italia) e nuova (la Lega), intende evitare le accuse di antisemitismo legate alla storia del fascismo e indicare come suo principale, se non esclusivo, torto le leggi razziali e la persecuzione antiebraica, sostenendo implicitamente che invece tutto il resto sarebbe da riabilitare. Il caso di Fini è emblematico: si recò in Israele e venne accolto allo Yad Vashem, ma nel contempo sostenne che Mussolini era stato il più grande statista del secolo (dichiarazione che parecchi anni dopo si rimangiò) e che “ci sono fasi in cui la libertà non è tra i valori preminenti”. Anche Salvini si è recato in pellegrinaggio al museo della Shoa con le stesse intenzioni.
La “sinistra” vede nell’appoggio a Israele e alla sua narrazione l’opportunità di ribadire l’appartenenza al blocco occidentale, come dimostrano gli esempi degli ex-dirigenti del PCI Napolitano, Veltroni e Fassino, tra i più accaniti sostenitori delle ragioni dello “Stato ebraico”. Persino nelle fasi più violente dello scontro con i palestinesi, come durante le operazioni Piombo Fuso (oltre 1.400 morti, in maggioranza civili) Margine protettivo nel 2014 (più di 2.000, morti in maggioranza civili) e Guardiano delle Mura (260 morti palestinesi di cui almeno 129 civili in 11 giorni di conflitto), gli esponenti del centro-sinistra si sono schierati insieme ad esponenti di destra e persino della Lega con Israele, sollevando nell’ultimo caso dure critiche dai propri iscritti ed elettori.
3. Storia e propaganda.
Israele ha evidentemente tutto l’interesse a utilizzare la memoria della Brigata ebraica per legittimare la propria esistenza e le proprie politiche. Sottolineando la partecipazione sionista alla lotta contro il nazi-fascismo ottiene due risultati: ribadisce la propria collocazione nel campo delle democrazie occidentali, per l’altro ed evidenzia il presunto filo-fascismo e filo-nazismo degli arabi in generale e dei palestinesi in particolare.
In Italia, ricorda Fantoni, la questione della Brigata ebraica è diventata fonte di polemiche a partire dal 2004, nonostante nei cortei del 25 aprile sfilassero bandiere palestinesi dagli anni ’70. Ciò a suo parere avvenne perché era ormai evidente il fallimento del cosiddetto processo di pace (gli accordi di Oslo) e le opere dei nuovi storici israeliani avevano iniziato a demolire tutti i miti fondativi del cosiddetto Stato ebraico costruiti dalla narrazione sionista: la “fuga volontaria” dei palestinesi, l’indisponibilità alla pace da parte dei Paesi arabi, persino la narrazione del piccolo David sionista contro il Golia arabo. Inoltre, aggiungo io, si stava esaurendo la Seconda Intifada, con il suo corollario di attentati suicidi, che sicuramente avevano alienato le simpatie conquistate dai palestinesi durante la Prima Intifada, ma anche che aveva visto anche l’uso indiscriminato di armi da guerra contro la popolazione civile palestinese, come durante l’offensiva Scudo Difensivo, che, secondo le stime molto caute di un rapporto dell’ONU, portò ad almeno 500 morti e 1.500 feriti. Inoltre il governo israeliano decretò la morte politica, e forse anche quella fisica, di Yasser Arafat, che era stato accettato come interlocutore sia dagli americani che dal governo Rabin. Era necessario far dimenticare alla comunità internazionale il fatto che in quei 10 anni la colonizzazione dei territori occupati, la ragione principale del fallimento di Oslo, era continuata, e l’assassinio di Rabin su istigazione della destra israeliana (Sharon e Netanyahu in primis) che però dal 2001 era al potere.
L’accusa di filo-nazismo è particolarmente utile alla propaganda israeliana. Sostenere che l’avversione degli arabi, e dei palestinesi in particolare, non era dovuta alla pulizia etnica, alla colonizzazione, all’oppressione ma all’antisemitismo intrinseco nella loro mentalità violenta e primitiva e nella religione islamica sollevava Israele da ogni responsabilità, e anzi lo legittimava a resistere. Da qui l’insistenza della storiografia sionista e di politici come Begin, Shamir, Sharon e soprattutto Netanyahu riguardo al legame tra Hitler e Mohammed Amin al-Husseini, il Gran Muftí di Gerusalemme, considerato l’unico rappresentante politico dei palestinesi. Prima nel 1993 e poi in modo ancora più esplicito nel 2015 Netanyahu sostenne che nell’incontro avuto con Hitler, durato peraltro 10 minuti, il Gran Muftí avrebbe convinto il Führer a sterminare gli ebrei. Queste affermazioni sollevarono l’indignazione da parte degli storici, anche israeliani, e provocarono addirittura una smentita da parte di Angela Merkel, ma in qualche modo il messaggio venne trasmesso all’opinione pubblica internazionale.
4. Scheletri nell’armadio
Il libro di Fantoni confuta in modo dettagliato non solo questa affermazione palesemente falsa, ma anche l’importanza e l’effettiva rappresentatività di Husseini rispetto al mondo politico palestinese dell’epoca, ricordando anche che in realtà molti arabo-palestinesi combatterono nelle file degli eserciti alleati. Ma, come si è detto, l’uso a dir poco disinvolto della storia è ormai incistato nel nostro dibattito pubblico, e i sostenitori di Israele, a partire dai rappresentanti delle istituzioni delle comunità ebraiche italiane, ne approfittano. Ad esempio Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica di Roma, scrisse che i palestinesi erano stati “gli alleati di Hitler”. Al coro si è aggiunto nel 2017 un articolo su La Stampa, dello stimato storico Giovanni Sabatucci. Il sito Informazione Corretta, cassa di risonanza della propaganda israeliana, cita spesso l’equiparazione tra Gran Muftí filonazista e palestinesi antisemiti. Eppure persino Ben-Gurion ebbe il coraggio di ammettere: “Ci sono stati l’antisemitismo, i nazisti, Hitler, Auschwitz, ma loro [i palestinesi] in questo cosa c’entravano? Essi vedono una sola cosa: siamo venuti e abbiamo rubato il loro paese. Perché dovrebbero accettarlo?”
Oltre a ribadire, come fa Fantoni, la scarsa rappresentatività di un personaggio ambiguo e screditato come il Gran Muftí, andrebbe ricordato che anche altri movimenti di liberazione anti-colonialisti cercarono l’appoggio dei nazisti per liberarsi dal giogo britannico. Lo fecero ad esempio Subhas Chandra Bose in India e alcuni esponenti dell’IRA nordirlandese. A questo elenco andrebbero aggiunti anche i gruppi del sionismo revisionista, come l’Irgun di Menachem Begin e il Lehi di Yitzhak Shamir, entrambi diventati primi ministri israeliani. Infatti i rapporti tra i dirigenti sionisti e il nazismo non furono affatto cristallini. Fantoni parla brevemente delle simpatie di Jabotinsky, ideologo del sionismo di destra e mentore dell’attuale partito Likud e di una serie di primi ministri israeliani (oltre che di Begin e Shamir, anche di Sharon e Netanyahu). Cita, senza entrare nei dettagli, l’accordo dell’Haavara, stipulato nel 1933 tra i nazisti ed esponenti del sionismo tedesco. Ma gli episodi furono più numerosi e compromettenti. Sempre nel 1933 la Federazione sionista tedesca mandò un memorandum a Hitler in cui affermava la propria accettazione del suo progetto politico e della drastica separazione razziale. Vi si legge tra l’altro che “per quanto riguarda la fondazione del nuovo Stato [tedesco], che si basa sul principio della razza, noi vogliamo adattare la nostra comunità alla struttura complessiva in modo che anche per noi, nel campo a noi assegnato, possa realizzarsi una feconda attività per la Patria.” Per parte sua la direzione laburista dell’yishuv non aderì al boicottaggio decretato dalle potenze occidentali contro il regime nazista e mantenne rapporti economici con la Germania. Questa decisione determinò un conflitto tra gli ebrei della diaspora e l’yishuv. Per parte sua Jabotinsky continuò a simpatizzare con Mussolini anche dopo l’emanazione delle leggi razziali, affermando anzi che esse erano colpa degli ebrei antifascisti. Durante la guerra mondiale i suoi seguaci, in particolare i dirigenti del gruppo terrorista Lehi, come le summenzionate organizzazioni nazionaliste di altri Paesi, cercarono un accordo con la Germania nazista in funzione antibritannica. Non a caso quando nel 1948 il capo della milizia della destra sionista Irgun e futuro primo ministro israeliano Menachem Begin si recò in visita negli USA, alcuni intellettuali ebrei, come Albert Einstein e Hannah Arendt, inviarono una lettera al New York Times in cui lo accusavano di “fascismo”, “terrorismo” e di “propagandare idee di superiorità razziale”. Begin e gli altri dirigenti del sionismo revisionista aderirono convintamente al progetto della Brigata ebraica, nella quale si arruolò un numero ragguardevole di miliziani dell’Irgun e del Lehi.
Quanto scritto finora non intende sostenere l’equiparazione del sionismo al nazismo e ancor meno che ci fu la complicità tra i dirigenti dell’yishuv e lo sterminio degli ebrei. La questione era che le priorità degli ebrei in Palestina non erano le stesse di quelli della diaspora. Per i dirigenti sionisti la priorità assoluta era la costruzione di uno Stato in cui tutti gli ebrei avrebbero trovato rifugio dalle persecuzioni. Ma questo progetto contrasta con l’immagine di generosa partecipazione alla lotta antifascista che la propaganda israeliana cerca di trasmettere anche attraverso la vicenda della Brigata ebraica.
5. Tornando al 25 aprile
Riguardo allo specifico problema delle polemiche che dal 2004 in poi accompagnano le celebrazioni del 25 aprile, Fantoni sostiene una posizione in parte condivisibile: da anni si assiste ad un attacco nei confronti di questa ricorrenza e dell’ANPI condotto sia dalla destra che dal centro-sinistra. La prima l’ha sempre osteggiata, mentre la seconda la ritiene ormai superata in quanto potenzialmente “divisiva”. Lo storico sembra propendere per evitare ulteriori polemiche, limitandosi a salvaguardare la memoria dei combattenti che liberarono il nostro Paese dalla dittatura, per “disinnescare una polemica che contribuisce a danneggiare un fronte antifascista già parecchio indebolito”. Quindi niente bandiere palestinesi o israeliane, né di altri Paesi che sono stati o sono protagonisti di una coraggiosa resistenza all’oppressione? Il punto m) dell’articolo 2 dello Statuto dell’ANPI cita tra gli scopi dell’associazione “dare aiuto e appoggio a tutti coloro che si battono, singolarmente o in associazioni, per quei valori di libertà e di democrazia che sono stati fondamento della guerra partigiana e in essa hanno trovato la loro più alta espressione.” Se quella dei partigiani è una memoria viva è perché si perpetua in chi oggi combatte la stessa battaglia ovunque nel mondo, non perché si rinnova in una ritualità puramente celebrativa. Per questo mi pare scontata quanto consolatoria la conclusione del libro, cioè l’auspicio di una riappacificazione tra le due parti in conflitto in Italia e in Israele/Palestina: tale non sarà mai finché le responsabilità non saranno definite riconosciute e le ingiustizie superate nei fatti. Sul piano delle responsabilità la ricostruzione storica lascia pochi margini al dubbio. Anche i nuovi storici israeliani, spesso citati nel libro, hanno scritto pagine definitive.
Ha scritto il giurista palestinese con cittadinanza israeliana Raef Zreik: “Il sionismo è un progetto coloniale di insediamento, ma non è solo questo. Esso unisce l’immagine del rifugiato con l’immagine del soldato, l’inerme con il potente, la vittima con il persecutore, il colonizzatore con il colonizzato, il progetto di insediamento che è allo stesso tempo un progetto nazionale. Gli europei vedono la schiena di un rifugiato ebreo che fugge per salvarsi la vita. Il palestinese vede la faccia del colonialista che si insedia prendendogli la terra.”
Se non si affrontano questi ossimori, se non si fanno i conti con l’ideologia etnico-religiosa sionista, vedendo la situazione solo dalla prospettiva storica europea, non si arriverà mai alla pace. Una parte sempre più consistente dell’ebraismo, soprattutto negli USA, lo sta riconoscendo; molto meno in Europa. La contraddizione che le comunità ebraiche devono sciogliere è stata sintetizzata in modo efficace da Philip Wohlstetter, intellettuale ebreo statunitense: “Per [Elie] Wiesel era ‘mai più a noi’; per [Primo] Levi ‘mai più a nessuno’.” È su questa opposizione tra universalismo e particolarismo, non tra filo o antisemitismo, che si giocano le polemiche sulla presenza delle bandiere della Brigata ebraica nelle manifestazioni del 25 aprile.