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SINISTRA&GUERRA “Non schierarsi né con Putin né con Zelenski è assolutamente ragionevole”. Tariq Ali, marxista di origine pakistana, una lunga militanza politica e intellettuale alle spalle, in particolare come saggista e redattore della New Left Review, ai primi di febbraio ha rilasciato un’intervista alla redazione latino-americana di Jacobin sulla guerra in Ucraina e, più in generale, sulla politica internazionale. Si smarca dalla posizione che domina anche l’area politica di Jacobin – il sostegno “critico” alla politica di guerra della Casa Bianca– e fa alcune osservazioni molto acute sugli effetti indesiderabili di tale politica per la stessa amministrazione americana. L’atteggiamento degli USA – sottolinea ad esempio – spinge la Germania, paese economicamente complementare alla Russia e che nella sua storia ha perlopiù coltivato relazioni amichevoli con Mosca, lungo la china di un forte riarmo, che in prospettiva potrebbe risultare spiacevole per gli stessi USA, poiché la Germania è il cuore dell’UE, cioè di un alleato i cui interessi per molti versi divergono da quelli americani. Più discutibile, a nostro avviso, l’ultima parte, in cui l’intervistato analizza la situazione latino-americana, esprimendo un giudizio  che ci pare eccessivamente ottimista sull’operato della sinistra sudamericana. Visto che Jacobin Italia (come del resto l’edizione americana) ci pare abbia scelto di non  tradurre l’intervista, abbiamo deciso di mettere a disposizione dei nostri lettori l’opinione di una figura autorevole della sinistra internazionale.


“Del tutto ragionevole non stare con Putin né Zelensky”

Intervista con Tariq Ali

La brutale operazione USA-NATO non giustifica il folle avventurismo di Putin. Un’analisi non di parte della guerra in Ucraina e del suo impatto regionale e globale.

MARTĺN MOSQUERANICOLÁS ALLEN, Jacobinlat, 21 febbraio 2023

Lo scrittore, regista e storico pakistano Tariq Ali, membro dei comitati editoriali della New Left Review e di Verso Books, da sempre attivista di sinistra in Gran Bretagna, dove ha vissuto fin da giovane, ha analizzato per Jacobin il nuovo scenario mondiale aperto dall’invasione russa dell’Ucraina. Da sempre interessato all’evoluzione dei movimenti politici latino-americani, ha anche sottolineato che l’attuale situazione politica apre la possibilità di una nuova Marea Rosa nella regione.

Cominciamo con la domanda più importante, che tira in ballo il dibattito sulla natura della guerra in Ucraina e divide la sinistra internazionale. C’è chi sostiene che si tratti solo di una “guerra di indipendenza nazionale” contro un aggressore imperialista, in questo caso la Russia, e chi invece sostiene che sia anche una “guerra per procura” condotta dagli Stati Uniti e dalla NATO, quindi anche una guerra interimperialista. Sono due delle principali posizioni sul conflitto, ciascuna con le sue ragioni. Qual è la tua analisi?

Fin dall’inizio mi è parso che ci siano essenzialmente tre guerre in corso. Una è, naturalmente, l’intervento russo in Ucraina, col folle avventurismo del presidente russo Vladimir Putin, che lo ha spinto a pensare che il suo esercito fosse in grado di conquistare l’intero paese. È stata questa la causa immediata di questo primo livello del conflitto. In secondo luogo è una guerra tra gli invasori russi e i nazionalisti ucraini di tutti i tipi, compresa la destra radicale presente nel cuore del nazionalismo ucraino, la cui appartenenza al fascismo in termini politici è innegabile e ha radici in quei fascisti ucraini che combatterono a fianco del Terzo Reich durante la Seconda Guerra Mondiale. Non è un gran segreto che l’Ucraina abbia una lunga tradizione in questo senso. D’altra parte se certamente i fascisti ucraini sono tutti nazionalisti, non è vero che tutti i nazionalisti ucraini siano fascisti. Il terzo livello, quello che negli ultimi mesi è diventato l’aspetto più importante del conflitto, ha a che fare con l’intervento della NATO. Certo l’Ucraina non è membro della NATO, ma ciò non significa che la NATO non sia presente in Ucraina. Ci sta dal 2014, quando ci fu la cosiddetta “rivoluzione di Maidan”, per molti versi un colpo di Stato organizzato dal Dipartimento di Stato americano, con [la sottosegretaria di Stato per gli Affari Politici] Victoria Nuland che dichiarò apertamente di essere lì per decidere la nuova leadership dell’Ucraina. Questo è lampante, così come non c’è dubbio che dal 2014 gli USA abbiano aumentato il loro controllo politico, militare e ideologico sull’Ucraina.

Quest’ultimo punto solleva una domanda su cosa avrebbero potuto fare i russi invece di scatenare una guerra. A mio avviso avrebbero potuto esercitare numerose pressioni. Nella peggiore delle ipotesi avrebbero potuto minacciare di prendere il controllo degli oblast del Donbas, Donetsk e Lugansk. Ed è interessante notare che questa è fondamentalmente la prospettiva a cui gli USA erano preparati, qualcosa che veniva considerato per un verso inaccettabile, ma allo stesso tempo qualcosa di negoziabile. Poi Putin ha perso completamente la testa e ha deciso di conquistare l’intera Ucraina. E il motivo per cui lo ha fatto è che era saturo. Russia e USA e le rispettive intelligence sapevano perfettamente cosa stava accadendo. Dallo scorso settembre gli USA erano al corrente dei piani russi per l’invasione dell’Ucraina, ma non potevano crederci e perciò hanno chiesto notizie ai loro colleghi russi, che hanno confermato di aver elaborato quei piani perché i giochetti degli USA avevano fatto perdere loro la pazienza. Nonostante ciò, molti negli USA dubitavano che sarebbero stati attuati. Anche la maggior parte della sinistra, visto quel che era successo fino al 2014, pensava che le minacce di Putin all’Ucraina fossero una forma di pressione per far sì che la controparte iniziasse ad ascoltare e ad accettare le sue richieste.

Devo ammettere che nessuno di noi dava peso alla minaccia dell’occupazione, qualcosa di così irrazionale (anche in termini di razionalità borghese e, se vogliamo, persino di mentalità imperiale) che andave oltre la nostra capacità di immaginazione. Insomma quanto è successo non era prevedibile. Credo che questo sia il punto da cui partire. È interessante la reazione iniziale di alcuni personaggi di spicco negli USA. Il New York Times ha pubblicato due articoli di Tom Friedman molto critici verso il ruolo giocato dagli USA. Anche se Friedman non accusava esplicitamente gli USA, le sue parole ci dicono che, in sostanza, la guerra l’hanno provocata loro. Mi spiace dirlo, ma è un’analisi piuttosto acuta, più di quelle fatte da qualsiasi corrispondente della stampa europea.

L’attuale capo della CIA ed ex ambasciatore degli USA presso la Federazione Russa, William Burns, anni fa aveva già avvertito che per i russi l’Ucraina era la linea rossa. Se la NATO e l’UE (oggi, con l’eccezione della Turchia, più o meno allineate) avessero continuato sulla strada imboccata, avrebbero provocato una seria risposta russa. Molti altri al Dipartimento di Stato e in altri organi avevano lanciato analoghi moniti. Mary Sarotte aveva scritto un intero libro sull’argomento, Not One Inch: America, Russia, and the Making of Post-Cold War Stalemate, tracciando un’accurata cronaca degli eventi. Ma gli USA dopo il 2014 sono andati avanti con nonchalance e, sebbene vi siano molte ragioni, una ragione fondamentale è stata che non credevano, così come del resto anche la sinistra, che Putin avesse intenzione di occupare l’intera Ucraina. Perciò è stato vedere questa aspettativa smentita che ha scioccato tutti. Persino il presidente americano Joe Biden aveva dichiarato pubblicamente che l’occupazione della Crimea e l’espansione dello spazio russo con l’annessione delle province a maggioranza russa erano accettabili e che sarebbero state una possibile base negoziale. Ma i russi sono andati ben oltre e questo va tenuto a mente.

Putin coltiva apertamente l’ideologia di uno sciovinista grande-russo. Non c’è altro modo per descriverla. Celebra il periodo zarista, quando l’Impero russo era vastissimo, odia Lenin e i bolscevichi per aver dato a tutte le nazioni dell’ex Impero zarista il diritto all’autodeterminazione nazionale. In particolare odia Lenin, affermando che fece troppe concessioni su quel terreno. Pur pensandola diversamente, su questo possiamo essere d’accordo con lui. Lenin e Trotsky, come la maggior parte dei bolscevichi, erano internazionalisti. Il loro pensiero era coerente con quell’impostazione e lo sciovinismo russo fu per molti decenni il loro nemico principale, perché era l’ideologia delle élites al potere. Putin è arrivato persino a dire che non esiste una nazione ucraina. Un’affermazione inaccettabile.

È possibile sostenere, a posteriori, che l’allargamento dell’Ucraina nel periodo sovietico, realizzato quando Krusciov era il principale leader dell’URSS, fu poco saggio. Ma era possibile sostenerlo quando nessuno poteva immaginare che l’URSS sarebbe crollata così rapidamente? Del resto Putin, Dmitry Medvedev e gli altri loro alleati non sostengono questa tesi, bensì che uno Stato ucraino non può esistere, perché Kiev è sempre stata parte della Russia e su questo non c’è discussione. Vuol dire che l’occupazione dell’Ucraina è solo un modo per riprendersi qualcosa di proprio, ma è un falso, perché anche negli anni Venti e Trenta ci furono ampi dibattiti sulla nazione ucraina e non solo per opera dei bolscevichi: anche esperti di relazioni internazionali sostenevano che l’Ucraina è una nazione quanto la Georgia.

Putin rifiuta di accettare questa tesi e noi siamo a questo punto. Ma dove, di preciso, ci troviamo? A mio avviso in una situazione in cui il tentativo iniziale di Putin di conquistare l’intera Ucraina si è rivelato un completo e totale disastro, anche dal suo punto di vista. L’esercito russo è in trappola, perché non si aspettava di combattere così a lungo. E questo disastro verrà confermato se l’obiettivo resterà conquistare l’intera Ucraina, che non è un insignificante Stato baltico, ma una nazione di 14 milioni di persone, se contiamo solo la popolazione russofona. Dunque come si può conquistare l’Ucraina senza che la popolazione e l’esercito russi siano pienamente favorevoli e comprendano l’azione del loro governo e le ragioni su cui si fonda? In questo senso Putin negli ultimi mesi è riuscito a migliorare un po’ la sua posizione e i sondaggi di opinione (anche quelli condotti da agenzie occidentali come Ipsos, non da agenzie russe) mostrano che i suoi indici di gradimento sono in crescita. Ma in definitiva la Russia non è riuscita a raggiungere i propri obiettivi.

Migliaia e migliaia di carri armati russi sono stati catturati e si dice che siano stati uccisi fino a 100.000 soldati, un numero enorme. Si tratta probabilmente del più grande tributo di guerra e di vite umane pagato da molto tempo a questa parte in Europa. Per Putin è un disastro. E la mia ipotesi è che, riservatamente, la posizione iniziale della NATO fosse lasciargli occupare alcuni piccoli distretti e, in cambio, far entrare l’Ucraina nella NATO. Questo è ciò che Putin non voleva che accadesse perché, per ragioni strategiche di Stato, non voleva basi militari NATO ai confini della Russia. Perciò non l’avrebbe mai accettato. I media occidentali parlano con molta leggerezza di una guerra tra Russia e Ucraina, ma è una verità parziale, perché il peso dei combattimenti, in termini di fornitura di armi, identificazione e uccisione di generali russi, grava soprattutto sugli USA, che operano col sostegno della NATO.

Per quanto riguarda la risoluzione del conflitto, piuttosto che continuare con una guerra che costerà sempre più vite ucraine, distruzione di città ucraine ecc., l’unica via d’uscita sensata è quella negoziale La speranza russa che un piccolo contingente armato potesse entrare a Kiev, occupare rapidamente la capitale e da lì occupare gradualmente il resto del Paese, avendo alle spalle migliaia di ucraini che vivono ai confini con la Polonia, non si è realizzata. L’Ucraina ha organizzato una solida resistenza, i tedeschi stanno inviando armi e così via. In termini ideologici generali si è trattato di un trionfo degli USA: non credo ci sia altro giudizio possibile. A oggi Putin è umiliato sul campo di battaglia, le sue truppe hanno sofferto, Svezia e Finlandia hanno deciso di aderire alla NATO e la Svezia ha persino iniziato a consegnare i rifugiati curdi al presidente Erdoğan, per superare le obiezioni turche all’adesione alla NATO. Quindi una vittoria un po’ strana, ma in sostanza il segnale che gli USA hanno spinto su questo fronte e che la Russia è ancor più isolata di quanto non fosse prima di entrare in guerra.

Questo è l’attuale bilancio. Quindi credo che ora tocchi soprattutto alla NATO fare delle scelte. La NATO, o meglio, gli USA devono decidere se vogliono davvero restare in Ucraina quattro o cinque anni a combattere per cercare di indebolire la Russia, anche a costo di perdere molte vite umane e vedere molte città distrutte. Hanno intenzione di combattere fino all’ultimo ucraino semplicemente per distruggere il nemico della nuova Guerra Fredda? Perché per molto tempo la Russia è stata un alleato degli Stati Uniti. La guerra cecena, ad esempio, ha avuto il sostegno di Bush, Clinton e Blair. Hanno ucciso molte persone e Grozny è stata completamente distrutta. Ma all’epoca pergli USA non fu un problema. Oggi invece lo è, perché mette in discussione la strategia della NATO in Europa orientale. La NATO potrebbe decidere di continuare a combattere, scommettendo sulla possibilità di distruggere lo Stato russo, ma potrebbe non riuscirci, pur essendone teoricamente capace. Se ci provassero, infatti, alimenterebbero una più ampia mobilitazione in Russia, cioè un maggior numero di russi sarebbe disposto a unirsi e a combattere per difendere il proprio paese. Insomma parteciperebbero alla difesa della Russia molte più persone di quante oggi siano disposte a prender parte all’invasione dell’Ucraina.

Oggi, dunque, siamo in un momento di transizione. Putin è in una posizione di stallo. Ha ottenuto alcune vittorie nel Donbas, i cui effetti potrebbero durare poco. Gli USA si dicono decisi a combattere e i nazionalisti ucraini affermano che prima avrebbero potuto accettare la cessione del Donbas, ma ora non più e rivogliono anche la Crimea. Se le cose stanno così, la guerra potrebbe continuare ancora per un po’. Ed è ciò che al momento appare plausibile, anche se, naturalmente, si tratta di una situazione molto instabile in cui non si possono fare previsioni.

L’altra parte della tua domanda riguardava lo stato della sinistra. Va detto che pochissimi settori della sinistra sostengono la guerra di Putin. Ci sono alcuni integralisti che la sostengono semplicemente perché per loro il nemico sono gli USA. Non è mai stato il mio approccio politico, né a livello nazionale né a livello globale. Il nemico del tuo nemico raramente, forse addirittura mai, è tuo amico. La storia lo ha dimostrato più volte. Quindi quel sillogismo non può funzionare. Ma invece di partire dalla sinistra, partiamo dal mondo. Metà del mondo, se non di più, non ha votato a favore delle sanzioni alla Russia volute dagli americani. Questo è davvero straordinariamente importante. L’idea che gli USA decidano quale paese sanzionare e che tutto il mondo li segua semplicemente non si è realizzata né con Cuba, né col Venezuela, né oggi con la Russia. Non funziona così.

Quando due paesi grandi come Cina e India decidono di schierarsi contro le sanzioni non lo fanno per un astratto principio strategico, ma perché i loro paesi, che hanno stretti legami commerciali ed economici con la Russia, ne risentirebbero enormemente. La maggior parte dell’Africa ha fatto lo stesso. I principali paesi del mondo si sono astenuti. La realtà è che gli USA hanno dovuto mobilitare i propri alleati, in sostanza i paesi che dipendono da loro sin dalla Seconda Guerra Mondiale. Ma il resto del mondo non è favorevole a come viene combattuta questa guerra e si oppone totalmente alle sanzioni contro la Russia. Ciò implica un mutamento dell’opinione pubblica su una guerra che nel resto del mondo non viene vista come la vedono i media europei. In India, ad esempiio, l’informazione è piuttosto neutrale e presenta i punti di vista di ambo le parti.

A sinistra gli intellettuali sono divisi. Alcuni assumono la posizione che ho appena esposto – quella che abbiamo sostenuto sulla New Left Review dall’inizio della guerra e, da quel che ho letto, non è molto diversa da quella di Jacobin. La posizione assunta da altri, come Slavoj Žižek, non desta sorpresa. Questi è alla ricerca disperata di pubblicità, per cui se ne esce con le idee che sappiamo, anche se ormai nessuno lo prende troppo sul serio. Del resto la sua posizione non è cambiata dai tempi della guerra in Jugoslavia, quando sostenne i bombardamenti della NATO. Quello fu il primo grande tentativo post-Guerra Fredda di allargare la NATO con la forza. E Žižek sostenne i bombardamenti, cosa che lo screditò abbastanza, ma all’epoca non troppo. È davvero un soggetto scaltro e intelligente, che descriverei fondamentalmente come un liberale di sinistra e con le sue posizioni sull’Ucraina è tornato alle sue origini. Citare altri come lui mi pare inutile.

Quando l’Occidente combatte una guerra la sinistra è sempre divisa e oggi ci sono settori che sostengono la presenza della NATO in Ucraina e chiedono più aiuti e più soldati. Fecero lo stesso con la Siria, quando era chiaro il coinvolgimento degli USA nel rovesciamento di un regime che non andava loro a genio, sostennero la cacciata di Gheddafi all’epoca del regime change in Libia e oggi cercano di sorvolare sui risultati disastrosi che ha avuto. E fanno lo stesso con l’Ucraina. Credo che valga la pena sottolineare che a nessuno di loro, sia che abbiano cambiato posizione sia che abbiano rafforzato quelle precedenti, importi molto di ciò che accade nello Yemen, in Somalia, o nel Sahara o di ciò che accade dietro le quinte in altre parti del mondo quando agli Stati Uniti non piace il regime di un paese. E se si parla con alcuni di loro della Palestina, sostengono che i palestinesi devono fare un accordo a lungo termine con lo Stato sionista, perché non c’è alternativa. D’altra parte se rinunciano a qualunque analisi alla radice di ciò che accade nel mondo, perché dovrebbero fare altrimenti sull’Ucraina?

Questo mi ricorda qualcosa che Richard Seymour ha scritto di recente su come la guerra sia una sorta di droga per gli intellettuali di sinistra, perché improvvisamente le loro idee sembrano avere una grande importanza e influenza globale. Alcuni sono persino pronti a sostenere le cause imperialiste, il che è sorprendente, perché un tempo erano gli intellettuali di sinistra che, come dicevi, acccendevano i riflettori su queste guerre ignorate, sulle invasioni imperialiste o sul colonialismo.

È così, ma non vale per tutti. Va detto che gli intellettuali di sinistra o della parte radicale dei moti rivoluzionari, hanno cambiato schieramento molte volte nella storia. Se si risale alla Rivoluzione Inglese del XVII secolo, consiglio un libro di Christopher Hill intitolato The Experience of Defeat, in cui descrive i Livellatori e i membri di altre sette anticromwelliane che si opposero a Cromwell per ottime ragioni, ma poi divennero sostenitori della restaurazione monarchica e sopravvissero finendo per sguazzare liberamente alla corte di Carlo II. Non si tratta, pertanto, di un fenomeno nuovo. Solo all’attuale generazione sembra che sia così. La stessa cosa è accaduta dopo la Rivoluzione francese e la Rivoluzione russa. Molti trotskisti, che inizialmente sostenevano Trotsky, finirono per allinearsi con l’imperialismo americano. È lì che la loro particolare logica li ha portati. Max Shachtman ne è un esempio, perché ha finito col sostenere l’invasione della Baia dei Porci a Cuba e ha sostanzialmente difeso la guerra del Vietnam. E ce ne sono altri come lui. Sto solo dicendo che non è una novità. Perciò il fatto che Žižek o un britannico di nome Paul Mason, un tempo di sinistra, abbiano adottato queste posizioni non mi sorprende più di tanto. D’altra parte, invece, francesi come Jean-Luc Mélenchon hanno assunto una posizione che mi sembra molto equilibrata e non molto diversa dalla nostra.

Anche alcuni gruppi trotskisti si sono lanciati in una spiegazione molto unilaterale di ciò che sta accadendo, in sostanza ignorando il ruolo della NATO. È come se la guerra fosse scoppiata dal nulla, senza che ci sia stato alcun responsabile oltre a Putin, il quale sarebbe improvvisamente impazzito. In altre parole: spiegazioni psicologistiche della guerra, centrate su un’unica persona. Tanto che per sapere cosa ha fatto la nostra parte bisogna leggere i giornalisti e i commentatori americani. Penso che sia perfettamente legittimo dire in pubblico, come ho fatto, che sono totalmente contrario a Putin e alle atrocità che si compiono in Ucraina, ma che allo stesso tempo non appoggio la reazione del governo ucraino filoNATO, che cerca di portare avanti la guerra e di mettere sul tavolo richieste inaccettabili così che lo scontro continui. È del tutto legittimo sostenere questa posizione. Se ci opponiamo alla guerra in Iraq, non significa che sosteniamo Saddam Hussein. Se ci opponiamo alla guerra in Siria o in Libia, non significa che siamo sostenitori politici di Assad o di Gheddafi. Ci si può opporre a una guerra anche se non si è d’accordo con chi è nel suo mirino. E oggi è perfettamente ragionevole non essere né a favore di Putin né di Zelensky.

Capisco che questa affermazione per molte persone sia terribile. Ma osserviamo Zelensky: è chiaro che ha lavorato per gli USA. Gli americani non lo volevano, ma lui è rimasto intrappolato nel flusso degli eventi e Washington è stata costretta a sostenerlo e costruire il fenomeno Zelensky. Non è un uomo molto intelligente, fa ciò che gli viene chiesto. Per quanto tempo ancora lo adoreremo come un eroe? La venerazione nei suoi confronti è un chiaro segno di come alcuni a sinistra siano succubi della propaganda di guerra. Con l’Iraq era successo meno che con la Siria o la Libia. Nei media si trova molta propaganda e personalmente non faccio distinzioni tra CNN e BBC, perché usano esattamente le stesse immagini. I giovani, invece, non sono consapevoli delle ragioni più profonde che ci hanno portato alla guerra. Semplicemente odiano vedere tanta violenza e chi può biasimarli? A chi piace vedere case distrutte, persone comuni uccise o donne e bambini che cercano di lasciare il proprio paese? L’Occidente fa queste cose in continuazione in altre parti del mondo. Ed è inaccettabile, chiunque lo faccia.

Torniamo al punto che hai sollevato in relazione alla NATO quando hai accennato all’adesione di Svezia e Finlandia… C’è una rivitalizzazione della NATO, piuttosto inaspettata se si considera, ad esempio, che Macron poco prima dell’invasione dell’Ucraina era arrivato a dire che la NATO è in uno stato di morte cerebrale. Stiamo assistendo anche a una rivitalizzazione del potere militare americano e come possiamo leggere la traiettoria di questo rafforzamento?

Sono tra quelli che non hanno mai creduto al declino della potenza americana. Certo, ha subito alcune battute d’arresto, come di recente in Afghanistan, ma questo non significa che la sua potenza militare sia stata superata da altri paesi o da una coalizione di potenze. Il bilancio militare degli USA supera quello dei sei paesi che lo seguono in classifica, inclusi Russia, Cina, India e la maggior parte dell’Europa. E la situazione non è mutata. Anche se il ruolo giocato dagli USA inizialmente ha suscitato dissenso e nervosismo in alcune élites europee, in particolare in Germania e, marginalmente, nei paesi scandinavi, oggi il malumore è rientrato. Certo, a che prezzo? La Germania dovrà investire meno sulla spesa sociale e più sugli armamenti e l’esercito tedesco crescerà. Se fossi nel gruppo degli esperti che consigliano il Dipartimento di Stato americano, chiederei: siete sicuri al 100% che questa sia una buona idea? Non perché la Germania sia stata fascista, ma perché oggi è il paese più importante d’Europa, a tal punto che se uscisse dall’UE, ora che la Gran Bretagna è fuori, l’UE diventerebbe una barzelletta.

In sostanza i tedeschi giocheranno sempre più il ruolo di potenza, ma una delle istanze strategiche dello Stato tedesco è sempre stata avere relazioni amichevoli a tutti i livelli coi russi. I due paesi da tempo sono complementari in termini economici e commerciali. Anche durante il primo periodo di governo dei bolscevichi, alla fine degli anni Venti, i tedeschi non volevano legarsi troppo ai russi. Poi i nazisti cambiarono politica e abbiamo visto come è finita. Ma quando alle élites tedesche fu negata la possibilità di addestrare i militari sul proprio territorio, a causa del Trattato di Versailles, i russi nel 1922 firmarono il Trattato di Rapallo, permettendo ai tedeschi di addestrare i propri soldati, perché vedevano Gran Bretagna e USA come avversari. Quindi, a prescindere dalla struttura sociale capitalistica dei due paesi e dai diversi livelli di sviluppo che li contraddistinguono, oggi nei due paesi ci sono capitalisti di spicco che intrattengono relazioni di amicizia.

Il punto, dunque, è: fino a quando la Germania accetterà l’isolamento della Russia, che nuoce agli interessi dello Stato e dell’economia tedeschi? Probabilmente fino alla fine della guerra in Ucraina, ma non credo che le posizioni di Berlino siano cambiate molto all’interno. Nel cuore dello Stato tedesco ci sono una fazione filoamericana e una fazione filorussa, quest’ultima meno agguerrita ma altrettanto importante. La NATO apparentemente si è rafforzata, il che è ovviamente un gran sollievo per gli USA. Ma è chiaro che questi non possono contare esclusivamente sulla NATO. L’Australia era presente all’ultima riunione della NATO a Madrid, dove la Cina è stata attaccata come probabile minaccia futura… Nel mio libro su Churchill (Winston Churchill: His Times, His Crimes) ho definito la Gran Bretagna e l’Australia i due cruciali Stati-testicolo degli USA. Non sono importanti di per sé. E non è detto che il loro peso sia confermato se la Scozia diventa indipendente, lasciando la Gran Bretagna molto più debole di prima, o se la situazione in Australia cambia. Anche se lì un governo terribilmente di destra è stato sostituito da un governo laburista che tuttavia in politica estera punta a mantenere l’Australia subalterna agli USA e anche se l’attuale situazione non muterà rapidamente, nel mondo la situazione comunque è destinata a cambiare e si sviluppano nuovi movimenti di massa.

Volevamo chiederti di caratterizzare in modo più approfondito la congiuntura generale. È in corso un dibattito sulla possibile fine della globalizzazione, del neoliberismo e dell’ordine geopolitico ereditato dagli anni ’90. Qual è la tua opinione?

Direi che la globalizzazione, così come si è manifestata subito dopo il crollo dell’URSS e negli anni ’90, gravida di quell’entusiasmo che la dipingeva come l’unica via percorribile, è implosa. E lo ha fatto non per la forza con cui la sinistra l’ha contrastata – tranne in Sud America, di cui parlerò tra poco – ma a seguito della crisi del 2008. Molti, compresi quegli intellettuali che difendono l’ordine esistente – di cui in larga parte sono stati gli apologeti, avendo scritto per anni sul Financial Times che la globalizzazione era la soluzione ai problemi del mondo – oggi non prendono atto di quell’implosione e dicono che non dovremmo cassare tutto, buttare via il bambino con l’acqua sporca, criticare le privatizzazioni e così via.

Il crollo di Wall Street nel 2008, però, è stato un duro colpo alla globalizzazione e le ha fatto perdere il suo smalto anche agli occhi di altre parti del mondo che facevano da spettatori. È semplice pragmatismo constatare che la globalizzazione non ha mantenuto le sue promesse, con la sola eccezione della Cina, la grande sorpresa di fine ‘900, destinata a dominare il nuovo secolo. I cinesi hanno agito con intelligenza. Pur essendo stati tentati, non hanno emulato i russi, che hanno deciso di abbracciare il capitalismo svendendo le proprie industrie a burocrati e amici, in gran parte ex fedeli sostenitori del Partito Comunista dell’URSS. Gli oligarchi hanno origine proprio dalla burocrazia al potere prima del crollo dell’URSS.

Aggiungo come nota a margine che già in un noto libro di Trotsky, dal titolo mal tradotto La rivoluzione tradita (che l’autore in realtà aveva intitolato, in modo più sottile, Che cos’è l’Unione Sovietica e dove sta andando), si anticipava un periodo di transizione dell’URSS, in cui si sarebbe andati verso una qualche forma di democrazia socialista e di controllo sulla burocrazia oppure si sarebbe tornati al capitalismo, con la trasformazione dei membri della burocrazia che allora difendeva il regime in capitalisti. Trotsky non usò la parola oligarchi, disse che sarebbero diventati capitalisti, dimostrandosi abbastanza preveggente. Ed è più o meno ciò che è successo quando la burocrazia sovietica è crollata. La leadership politica sovietica non aveva una visione prospettica. Gorbaciov e Eltsin credettero all’Occidente, dicendosi convinti che questo li avrebbe aiutati, mentre in realtà li ha depredati.

Come sappiamo i cinesi scartarono quell’approccio, anche se va detto che anche loro lo presero in considerazione. Alla fine però discussero all’interno dei loro think-tank e del gruppo dirigente di partito e definirono un proprio metodo: mantenere una significativa dose di controllo statale sull’economia, così da poter intervenire rapidamente in caso di necessità. Allo stesso tempo usarono lo Stato e le sue strutture politico-economiche per creare nuove città e trasformare le vecchie, come Shanghai o Pechino, creando una classe media molto ampia, fattore decisivo a molti livelli. Oggi i russi ammirano a metà la soluzione cinese. Una delle questioni chiave sottolineate dai cinesi è che loro erano favorevoli alla perestrojka, ma non alla glasnost, perché il partito doveva mantenere il controllo, per evitare che succedesse ciò che poi è effettivamente successo: un bilancio ormai scontato.

Prima del crollo di Wall Street del 2008 il luogo in cui per la prima volta la globalizzazione è stata colpita duramente è stato il Sud America. Il Caracazo venezuelano ebbe come effetto Chávez. Ricordo un fatto incredibile, all’epoca in cui  Chávez, prima di salire al potere, fu arrestato e accusato di aver ordito un colpo di Stato. Il suo piano era utilizzare l’ala più radicale degli ufficiali, che avrebbe dovuto organizzare uno sciopero generale allo scopo di unire settori dell’esercito e della classe operaia. Lo sciopero generale, però, non ebbe luogo e lui fu arrestato. Chávez allora disse al governo venezuelano – cosa che trovo piuttosto affascinante: “Non ho intenzione di negare le mie responsabilità. Ma lasciate che ammetta la mia colpa davanti al popolo in televisione”. Loro acconsentirono e Chavez parlò in televisione da detenuto, dicendo: “Compagni, purtroppo per ora gli obiettivi che ci eravamo prefissati non sono stati raggiunti”. Il giorno dopo si vide che secondo i sondaggi d’opinione il 70% della popolazione era d’accordo con Chávez. Questo aneddoto rivela due cose: una è che la gente non ne poteva più, l’altra è che i politici visionari possono colpire all’improvviso, mobilitando le masse e fornendo loro energia. So che i venezuelani hanno attraversato momenti difficili e commesso errori, non ho problemi a riconoscerlo, ma allo stesso tempo hanno gettato le basi per quella che poi è diventata famosa come la Marea Rosa, una politica socialdemocratica effettivamente di sinistra e democratica. In diversi paesi ne è venuta anche una spinta alla promulgazione di nuove costituzioni, di cui quella venezuelana è la più radicale (molto più di quella americana, perché non conferisce particoari poteri alla Corte Suprema e include il diritto di revocare il presidente e molte altre misure simili). Anche i boliviani hanno fatto la stessa cosa e i cileni, il cui nuovo presidente non è affatto simpatico alla sinistra, devono adottare una nuova costituzione e ciò alimenta grandi dibattiti a sinistra per il modo in cui si sta procedendo, dato che Boric è molto filoamericano e non simpatizza affatto per la Marea Rosa.

Quel modello non è morto. Gli USA non sono riusciti a cancellarlo del tutto. Hanno fatto un colpo di Stato in Honduras, che ora è stato neutralizzato; hanno fatto di tutto per impedire l’elezione di Andrés Manuel López Obrador a presidente del Messico e hanno subito un’altra battuta d’arresto; si sono sbarazzati di Evo Morales, costringendolo a lasciare il suo paese, ma il MAS è tornato al potere ed Evo è tornato a casa sua, scegliendo assai opportunamente di non svolgere un ruolo centrale affinché altri possono governare. I risultati delle elezioni colombiane hanno fatto molto piacere a molti appassionati delle cronache sudamericane, perché si tratta del paese storicamente più legato agli USA, attraverso un Plan Colombia progettato per destabilizzare altri Stati e in Venezuela utilizzato per fare cose deprecabili, come sappiamo tutti. Non sto dicendo che la vittoria di questi due personaggi di spicco in Colombia cambierà tutto, perché bisognerà tenere d’occhio soprattutto l’esercito, un osso duro, ma è un segnale che gli USA non se la caveranno tanto facilmente: se vorranno rovesciarli con un golpe militare dovranno pagare un prezzo, perché, a parte le élites, i colpi di Stato ormai non piacciono più. Bolsonaro probabilmente verrà sconfitto e Lula tornerà al potere. Quindi, nonostante gli alti e bassi, il Sud America resta il continente più progressista e ciò ne fa il luogo più attraente al mondo.

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