ONU: ogni giorno nel mondo uccise 133 donne
Un lungo e interessante rapporto dell’ONU analizza il fenomeno delle uccisioni di donne che maturano nella sfera affettiva e familiare, ma ignora il rapporto tra il fenomeno e l’estrazione sociale delle vittime e, più in generale, le diseguaglianze sociali nei paesi presi in considerazione. Altri studi riempiono in parte questo vuoto.
Secondo il recentissimo rapporto Gender-related killings of women and girls (feminicide/femicide). Global estimates of female intimate partner/family-related homicides in 2022, a cura dell’UNODC e di UNWomen, agenzie delle Nazioni Unite che si occupano rispettivamente di droghe e crimine e della condizione femminile, l’80% delle uccisioni intenzionali commesse nel 2022, circa 450.000, ha avuto come vittime degli uomini. Le donne rappresentano, dunque, solo un quinto delle vittime di morte violenta, ma il 55% di loro viene uccisa da partner o familiari, una percentuale che nel caso degli uomini si riduce al 12%. Su 89.000 donne assassinate, dunque, 48.800 sono state uccise nell’ambito di relazioni affettive, in atto o interrotte, o familiari: uno stillicidio di 133 vittime al giorno.
La stragrande maggioranza donne uccise si concentra in Africa (20.000) e in Asia (18.400), ma si tratta di dati probabilmente molto sottostimati per l’assenza di sistemi di registrazione efficienti. Il resto è distribuito tra Americhe (7.900), Europa (2.300) e Oceania (200). Si tratta di dati assoluti chiaramente influenzati dalla distribuzione disomogenea della popolazione mondiale tra i continenti e per depurarli da questo effetto distorsivo possiamo considerare invece quante donne vengono uccise ogni 100.000: in Africa sono 2,8; nelle Americhe 1,5; in Oceania 1,1; in Asia 0,8 e in Europa 0,6.
FIGURA 1: femminicidi, in valore assoluto e ogni 100.000 donne (Fonte: Gender-related Killings, cit.)
Come evolve il fenomeno nel tempo? Gli autori del rapporto ci presentano le curve che mostrano l’andamento del fenomeno nelle Americhe e in Europa, dove ci sono sistemi di registrazione considerati sufficientemente accurati. Nelle Americhe dal 2010 al 2022 il numero di uccisioni gender-related è passato dalle 7.000 alle 8.000 unità circa, ma si registrano cospicue differenze regionali. In particolare l’aumento è imputabile quasi esclusivamente al Nord America, mentre il trend è tendenzialmente stazionario in America Centrale e Caraibi e in calo in America Latina. In Europa, invece, si assiste a una riduzione da circa 3.000 a 2.300, ma anche in questo caso il dato è distribuito in modo molto disomogeneo: in lieve calo se si considerano Europa settentrionale e meridionale, stazionario nei paesi dell’Europa occidentale e ancora in lieve calo in Europa orientale.
In Italia, in particolare, delle 119 uccisioni di donne avvenute nel 2019 l’84% è avvenuto nella sfera domestica, mentre sui 184 uomini uccisi il dato si attesta al 21%. Circa il 59% delle donne assassinate nel 2021 ha perso la vita per mano del partner; il 25% di un familiare; il 5% di conoscenti e l’11% di estranei. Tra gli under 18 le percentuali cambiano in modo sostanziale: i ragazzi uccisi in casa sono il 55% e le ragazze il 75%. Il numero di donne uccise ogni 100.000 in Italia è sostanzialmente stabile, tra lo 0,3 e lo 0,4, mentre è in calo abbastanza netto in Germania, Spagna e Regno Unito.
FIGURA 2: femminicidi, trend in Italia, Spagna, Germania, Regno Unito (2010-2022)
Il rapporto delle due agenzie ONU non fa cenno, il che è abbastanza singolare, all’estrazione sociale delle donne uccise. Ma vi sono studi internazionali che analizzano la relazione tra violenza sulle donne e diseguaglianze sociali. Se è generalmente ammesso che all’aumentare delle diseguaglianze corrisponde una crescita della criminalità e degli omicidi, alcuni autori argomentano che è possibile anche osservare una relazione specifica tra diseguaglianze e violenza di genere. Ad esempio Income inequality and intimate partner violence against women: Evidence from India (2016) analizza il fenomeno della violenza sulle donne indiane da parte dei partner collegandolo all’andamento dell’indice di Gini, che misura la distribuzione della ricchezza. Il valore dell’indice è compreso tra 0 e 1, dove 0 è la perfetta equidistribuzione, mentre 1 è il caso limite in cui l’intera ricchezza di una comunità è detenuta da un solo membro. La tesi degli autori è che a un aumento di un punto percentuale dell’indice le probabilità di violenza sessuale ai danni delle donne indiane cresce del 6,2% e quella di forme di violenza meno brutale del 2,1%. Analogamente un altro studio del 2019, Greater income inequality is associated with higher rates of intimate partner violence in Latin America, dimostra che anche in un’altra importante regione del mondo esiste una relazione positiva tra gli atti di violenza fisica e sessuale perpetrati dai partner maschili nei confronti delle proprie donne e le diseguaglianze di reddito misurate in termini di PIL pro capite, indice di Gini e rapporto tra il reddito del 10% più ricco della popolazione e quello del 10% più povero.
Un altro studio più recente, Femicide trends at the start of the 21st century: Prevalence, risk factors and national public health actions (2022) analizza il rapporto tra il tasso di femminicidi e la ricchezza complessiva di un paese, dimostrando che se il primo è diminuito del 32% e livello globale, nei paesi a reddito medio-basso è aumentato del 26% e in questi ultimi il dato è superiore del 47,8% rispetto ai paesi ad alto reddito.
C’è da chiedersi perché un rapporto delle Nazioni Unite, solitamente abbastanza attente alle questioni sociali, non si preoccupi di affrontare il tema della violenza di genere in quest’ottica.
Gender Gap: nel privato è tre volte maggiore
In Italia il divario di genere nel mondo del lavoro resta ampio. Il rapporto dell’Osservatorio Job Pricing rivela che le aziende private sono un forte volano delle discriminazioni di genere sia in termini di carriera che di salario. Dopo 40 anni di privatizzazioni ci sarebbe da farsi qualche domanda.
Il Gender Gap Report 2023 dell’Osservatorio Job Pricing analizza la questione del divario di genere sotto diversi punti di vista. Ci concentriamo in particolare su due, che sono strettamente collegati: istruzione e mercato del lavoro. Sul primo punto se in generale il gender gap è nettamente a favore delle donne – negli anni 2013-2021 la percentuale di uomini che si fermano alla licenza media o superiore è stato nettamente superiore solo il 43,8% degli uomini raggiunge la laurea, contro il 56,2% delle donne – le cose si complicano quando si va a vedere il dato scorporato per facoltà. Qui emerge la minore presenza delle donne nelle facoltà cosiddette STEM – Science, Technology, Enigineering and Mathematics: come mostra il grafico qui sotto la forbice è a favore delle donne sul versante delle materie umanistiche, in particolare psicologia, lingua e pedagogia, mentre si capovolge man mano che si procede verso competenze tecnologiche e informatiche. Un dato che naturalmente si ripercuote sul ruolo delle donne nel sistema produttivo e, dunque nel mercato del lavoro.
FIGURA 3: distribuzione dei laureati per facoltà e per genere
Nel 2022 l’occupazione femminile è tornata a crescere, ma il divario occupazionale di genere è rimasto elevato, 18 punti. A lavorare infatti sono il 51% delle donne, contro il 69% degli uomini, mentre il tasso di disoccupazione si attesta al 9,5% per le donne e al 7% per gli uomini. Il gap, tuttavia, non vale allo stesso modo per tutte le donne: analizzando i dati in rapporto al livello di istruzione, infatti, risulta che sono principalmente le donne non laureate a scontare una minor presenza sul mercato rispetto ai colleghi uomini. Al contrario, le donne laureate, tendenzialmente di estrazione sociale più elevata, che lavorano sono più degli uomini. Le donne non laureate sembrano più propense a decidere – più o meno liberamente – di non lavorare, spesso costrette a rinunciare per ragioni economiche, visto che il loro guadagno viene in larga misura dilapidato in baby sitter e altri aiuti al lavoro di cura Ogni lavoratore – spiegano gli autori del rapporto – ha un cd “salario di riserva”, al di sopra del quale decide di dedicare il proprio tempo al lavoro, e al di sotto del quale non trova conveniente lavorare.
L’utilizzo massiccio del part-time, spesso involontario, tra le lavoratrici acuisce il problema spingendo le donne ad abbandonare o rinunciare preventivamente al lavoro. In presenza di figli di età inferiore a 5 anni il gender gap raggiunge addirittura il 35%. Scomponendo il dato per regioni il rapporto attesta che nel Mezzogiorno il tasso di occupazione femminile è inferiore di oltre 30 punti rispetto al maschile. Inoltre le donne con figli compresi nella fascia d’età 6-17 anni raggiungono un tasso di disoccupazione del 15,8% (contro l’8,3% degli uomini) ed un tasso di inattività del 38,3% (contro il 16,2% degli uomini).
Un altro aspetto preso in considerazione nel rapporto riguarda le prospettive di carriera: le donne fanno meno carriera degli uomini e questo è risaputo. Ciò che emerge dal rapporto, però, è che il settore privato, cioè quello a cui negli ultimi 40 anni si è attribuito il ruolo di volano dello sviluppo economico, limitando di converso l’intervento pubblico nell’economia, contribuisce maggiormente al cosiddetto “tetto di cristallo”. Se, infatti, nel mercato del lavoro nel suo complesso le donne dirigenti sono il 33%, nel settore privato la percentuale si dimezza al 17%; tra i quadri le donne nel settore privato sono il 31% contro il 45% del settore pubblico e privato messi insieme. Infine non raggiungono il 16% nei cda delle società quotate in Borsa, anch’esse prevalentemente private. Le lavoratrici, inoltre, sono maggioranza assoluta in settori a basso reddito come i servizi alla persona e il turismo.
FIGURA 4: percentuale di donne nella gerarchia del mercato del lavoro
Per quanto riguarda i salari il gender pay gap in Italia è il quarto più alto in Europa dopo i dati di Olanda, Germania e Svizzera. La tabella qui sotto, coi dati 2018, è abbastanza interessante perché mostra come sia difficile attribuire l’andamento del fenomeno a gruppi di paesi omogenei. I paesi col dato più elevato sono tutti tra le economie più ricche, ma altri paesi con caratteristiche simili, come Francia e Spagna, denunciano un divario molto più ridotto. Tra i paesi con salari bassi la Grecia sta al quinto posto, subito dopo l’Italia, mentre il Portogallo ha un gap “solo” del 20,6% ed è penultimo. L’Islanda, considerata universalmente un esempio di parità di genere, ha un divario salariale di oltre il 30% e anche tra i paesi ex “socialisti” ci sono differenze rilevanti, mentre quelli scandinavi sono il gruppo più omogeno, con un gap limitato, che va dal 28,9% della Norvegia al 23,5% della Svezia.
FIGURA 5: gender pay gap (retribuzione mensile)
La posizione dell’Italia è evidentemente aggravata dall’utilizzo massiccio di lavoratrici part-time, perché chiaro che lavorando meno ore la differenza in termini di paga mensile aumenta. Per questo è più utile analizzare il dato della paga oraria, come viene fatto nella tabella sotto, da cui esce confermato il ruolo del settore privato come amplificatore del gender gap. In Italia il divario salariale nel privato è addirittura tre volte quello nel pubblico.
FIGURA 6: gender pay gap (retribuzione oraria)
Infine se politica e aziende in questi anni si sono vantate di aver preso misure per ridurre il divario salariale di genere, la tabella sotto ci mostra che in realtà anche qui il risultato pesa diversamente a seconda della fascia sociale a cui si appartiene: tra i dirigenti il gender pay gap in quattro anni si è ridotto quasi di un terzo, tra gli operai di un decimo mentre tra gli impiegati è addirittura aumentato.
FIGURA 7: gender pay gap e ruolo in azienda
In una discussione polarizzata e spesso tutta ideologica su reddito di cittadinanza e salario minimo e nello scontro tra privatizzatori e “statalisti”, l’ultimo esempio il dibattito sul regime tutelato per le utenze di energia e gas, sarebbe utile tenere presente questi dati. Anche qui questione di genere e questione di classe si intrecciano.