ATAC: perché privatizzare non è la soluzione
Una risposta e 5 domande all’Istituto Bruno Leoni
Sul sito dell’Istituto Bruno Leoni, Andrea Giuricin, fellow research dell’Istituto, ha pubblicato recentemente un focus sulla situazione dell’ATAC, l’azienda di trasporto pubblico locale della Capitale: ‘Il buco ATAC peggiora ma è possibile chiuderlo’.
Il saggio elenca alcuni dati relativi ai risultati aziendali, aggiornati al bilancio 2017 dell’ATAC e riassunti in alcuni grafici e disegna il profilo di un’azienda zavorrata dai debiti – quasi 830 milioni di euro solo quelli accumulati nei confronti del settore pubblico (Comune, INPS, Fisco ecc.) – in totale 1,5 miliardi che la società deve ai suoi creditori pubblici e privati e oggi soggetti al concordato preventivo autorizzato di recente dal Tribunale di Roma. Le corse effettuate dal 2012 al 2017 precipitano da oltre 160 a 144 milioni di chilometri annui, il 16% meno di quanto previsto dal contratto di servizio tra ATAC e il Comune di Roma, che scade l’anno prossimo e che il Comune vorrebbe prolungare senza gara fino al 2021. L’età del parco mezzi è alta e in crescita, il che spiega anche l’aumento dei mezzi che prendono fuoco: 14 nel 2016, 20 nel 2017, 9 nei primi mesi di quest’anno.
Per Giuricin il problema è essenzialmente legato ai costi: il costo per chilometro è passato dai 5,94 euro del 2015 ai 6,47 del 2017, contro i 2-2,5 della media europea. Questa situazione sarebbe imputabile in primis alla spesa per il personale, che nel 2014 rappresentava il 44,8% del bilancio, mentre nel 2017 sale al 51,6%. Giuricin cita di sfuggita il dato sull’assenteismo, il 12%, e afferma che ATAC potrebbe fornire lo stesso servizio con 2500 dipendenti in meno. Ma una riduzione del personale e dei costi che faccia risparmiare 4-500 milioni di euro l’anno – osserva – il pubblico non è in grado di farla, per cui l’unica soluzione è andare a gara e passare a una gestione privata e dunque efficiente. Il corollario che l’Istituto Bruno Leoni ne ricava è che:l’11 novembre bisogna andare a votare sì al referendum dei radicali sulla privatizzazione di ATAC.
Un articolo come quello di Giuricin, per il fatto stesso di essere zeppo di numeri e tabelle, si presenta a un occhio inesperto come un’analisi scientifica dello stato di salute di ATAC. Tuttavia i numeri non sono di per sé una garanzia di scientificità, se non vengono forniti tutti e soprattutto se non ne vengono tratte conclusioni logiche e argomentandole.
Troppi dipendenti?
Nel suo articolo Giuricin curiosamente cita il dato in crescita relativo all’evoluzione del costo del lavoro come percentuale della spesa totale, ma omette il dato assoluto, che vi forniamo nella tabella seguente, insieme a quello relativo al numero dei dipendenti.
Figura 1: costo del personale (migliaia di euro) e numero addetti (Fonte: ATAC, elaborazione PuntoCritico.info)
Come si può vedere il costo assoluto del personale è in costante diminuzione, salvo un lieve rimbalzo verso l’alto nel 2016, imputabile al rinnovo contrattuale degli autoferrotranvieri del dicembre 2015, che ha portato ai tranvieri i primi aumenti contrattuali dal 2008. Ma subito dopo il costo del lavoro ha ripreso la sua parabola discendente, mentre l’orario di lavoro è aumentato da 37 a 39 ore settimanali. Per quanto riguarda il numero dei dipendenti, anche in questo caso, il trend, al netto di alcune oscillazioni, è discendente, soprattutto perché si tende a non rimpiazzare il personale in uscita.
DOMANDA 1: Giuricin scrive che ATAC potrebbe fornire lo stesso servizio che dà oggi con 2500 dipendenti in meno, ma non si perita di spiegare da dove esca quel numero, insomma perché 2500 e non mille o 3mila?
Anche se il taglio si scaricasse quasi integralmente sui circa 1600 tra impiegati, quadri e dirigenti, ciò significherebbe produrre gli stessi risultati riducendo il numero di autisti, meccanici, VTV, controllori di un migliaio di unità, circa il 10% di chi fa effettivamente il servizio. Un’affermazione che contraddice tutte le esperienze di questi anni, in cui a ogni riduzione del personale è sempre seguito un taglio del servizio, come del resto confermano, se letti in parallelo, i dati di Giuricin sulla produzione in chilometri e i nostri sul numero di dipendenti. Dunque non basta affermare che si può tagliare quasi un quarto del personale e fare lo stesso servizio, bisogna anche dimostrarlo.
DOMANDA 2: come farebbe ATAC a dare lo stesso servizio con 2500 dipendenti (su 11mila e rotti) in meno?
L’articolo cita i dati sull’assenteismo, termine che un tempo si usava per indicare gli assenti ingiustificati, ma oggi include anche chi è e letto con una gamba rotta o accompagna la mamma 90enne a fare una radiografia. In ATAC il tasso di ‘assenteismo’ è al 12,5%, contro il 7,1% dell’ATM di Milano, un dato che anche Giuricin non resiste alla tentazione di esemplificare così: ‘ogni giorno quasi 1500 persone non si presentano al lavoro’. E’ un palese artificio: i dati vengono misurati ogni tre mesi e il 12% di assenteismo implica che in un trimestre rimanga scoperto il 12% dei turni. Ma fa più effetto dire che ogni giorno si assenta una persona piuttosto che dire che la stessa persona si assenta per più giorni. Ed è anche un modo per corroborare l’affermazione secondo cui ATAC potrebbe fare a meno di 2500 dipendenti. Insomma: tanto per cominciare 1500 sono quelli che marcano visita ogni giorno.
Le assenze dal lavoro sono regolamentate per legge. Repubblica310318 ha scorporato il dato relativo all’ultimo trimestre 2017. Sul 12,82% dei turni scoperti circa metà, il 5,7%, lo erano per malattia, lo 0,9% per infortunio, l’1,1% per congedo parentale, il 2,9% per permesso ex Legge 104 (assistenza familiari malati), l’1,4% per ‘altri motivi’. Se si pensa che una parte, piccola o grande, di queste assenze sia ingiustificata, ci sono gli strumenti disciplinari per intervenire: ATAC nei primi 9 mesi dell’anno ha licenziato una ventina di dipendenti che avevano falsificato certificati medici o abusato dei permessi per la 104. La strada per combattere eventuali ‘furbetti’ è questa, non tagliare gli organici. D’altra parte è bene ricordare che stiamo parlando di un settore in cui si lavora su strada e si è esposti a patologie legate alle mansioni svolte (per gli autisti in particolare legati alla postura, allo stress, all’inquinamento da traffico e al rumore) su cui c’è un’ampia letteratura medica.
Costo del lavoro troppo alto?
La tabella sotto riporta il costo per addetto, il valore aggiunto per addetto e il CLUP (Costo del Lavoro per Unità di Prodotto) in percentuale sul valore del prodotto. I dati sono tratti dall’indagine R&S-Mediobanca del 2016, Economia e finanza delle principali società partecipate dai maggiori enti locali (2010-2014).
Figura 2: costo e valore aggiunto per addetto e costo per unità di prodotto (Fonte: R&S-Mediobanca, elaborazione PuntoCritico.info)
Come si vede il costo per addetto in ATAC è in linea coi dati di altre città piccole e grandi e parecchio più basso di quello delle aziende lombarde (Milano e Brescia) presenti in tabella. A differire in modo significativo dalla media sono invece il valore aggiunto per addetto, decisamente basso, e il costo del lavoro per unità di prodotto, che invece è più alto.
DOMANDA 3: Giuricin di fatto attribuisce alti costi e bassa produttività integralmente al fattore lavoro: è in grado di argomentare e confermare con dei dati questa affermazione?
Facciamo un esempio concreto. Lo studio dell’IBL cita i costi crescenti che ATAC sostiene per ogni chilometro di servizio reso. Ma i costi sono imputabili a diversi fattori, non a uno solo. Nei trasporti è noto che un fattore di costo determinante è la velocità commerciale. Si stima che recuperare un chilometro di velocità commerciale significhi risparmiare fino a 5 milioni di euro l’anno.
Figura 3: velocità commerciale nelle maggiori capitali europee (Fonte: ASSTRA)
La figura precedente, tratta come la successiva dallo studio dell’Istituto di ricerca Hermes Il trasporto pubblico nelle capitali europee: un’analisi di Benchmark (2014), mostra che in Europa la velocità commerciale assume valori molto diversi da città a città. La ragione va ricercata a sua volta in altri parametri, ad esempio l’estensione delle corsie preferenziali, il numero di mezzi privati in circolazione, l’efficienza dei mezzi adoperati.
Figura 4: corsie preferenziali in % sull’intera rete (Fonte: ASSTRA)
Come si può vedere, anche per quanto riguarda l’estensione delle corsie gialle le differenze sono significative, da pochi punti percentuali fino a un terzo dell’intera rete che viaggia su corsie proprie, come accade a Vienna, e la stessa cosa vale in Italia. E’ ovvio che se le corsie preferenziali coprono una parte limitata della rete la velocità commerciale è più esposta agli effetti negativi del traffico e i costi per chilometro lievitano.
Figura 5: traffico di mezzi privati (Fonte: Eurostat e Annuari Statistici nazionali)
La figura precedente, tratta da un documento di Mobilitiamoroma, il comitato promotore del referendum dell’11 novembre, mostra che nella Capitale circolano circa 700 auto ogni mille abitanti, quasi due volte e mezzo la percentuale di Berlino e di Londra, il triplo di Parigi e il doppio di Barcellona.
Valutazioni analoghe si possono fare prendendo in considerazione altri fattori, come l’età media dei mezzi (che fa alzare i costi) o la quota di passeggeri trasportati su metro o ferrovia (dove evidentemente con un conducente si trasportano molti più passeggeri, e quindi il costo del lavoro per chilometro si riduce).
DOMANDA 4: sono i dipendenti di ATAC che decidono quanti chilometri di corsie riservate tracciare? Sono i dipendenti di ATAC che gestiscono la viabilità e determinano i volumi di traffico? Se no, perché devono risponderne?
La soluzione è il privato? Genova e Firenze
Secondo Giuricin per ridurre i costi bisogna ‘effettuare periodicamente gare trasparenti per l’assegnazione del servizio, e quindi separare la gestione dal controllo. Come insegna anche Alitalia, la gestione di aziende pubbliche non è proprio il “punto forte” della pubblica amministrazione, che invece può mantenere un ruolo cruciale nel controllo del rispetto dei termini di servizio, se solo fosse affidato a un soggetto terzo rispetto ad essa’. Anche in questo caso si dà per scontato che la gestione privata sia in grado di garantire efficienza, senza però fornire alcuna giustificazione di tale assunto.
DOMANDA 5: Giuricin è in grado di citare un caso in cui la gestione privata abbia portato a un servizio migliore?
In Italia abbiamo almeno due esempi dell’inefficienza della gestione privata, cioè due grandi città che hanno messo a gara il trasporto pubblico con l’unico risultato di ridurre il costo del lavoro, peggiorare il servizio e aumentare le tariffe: Genova e Firenze.
Nel 2005 il sindaco Giuseppe Pericu (DS), dopo aver trasformato AMT in Spa, ha dato a Genova il ‘privilegio’ di essere stata la prima grande città italiana a privatizzare il trasporto pubblico. Per questa operazione Pericu finirà inquisito, condannato a pagare 450mila euro per il danno erariale procurato al Comune e infine assolto, ma rimane il fatto che, aldilà della legittimità di quella scelta, dalle carte emerge che Genova dalla privatizzazione dei bus ha ricavato una perdita di 70 milioni di euro giustificata con la necessità di sanare un bilancio con un deficit di 15 milioni. L’acquirente è il gruppo francese Transdev (Cassa Depositi e Prestiti francese), che rileva il 41% di AMT, dopo che il debito di quest’ultima è stato scaricato su AMI, una bad company comunale nata per gestire infrastrutture, parcheggi e manutenzioni e finita in liquidazione qualche anno dopo. I francesi pagano 22,5 milioni di euro, con la clausola che la somma verrà restituita in caso di rescissione del contratto. Inizialmente nell’accordo tra Comune e socio privato era prevista anche che in tal caso a Transdev venisse riconosciuta una rivalutazione annua del 5% (all’epoca circa il doppio del tasso di interesse sui titoli di Stato), in seguito cancellata per un sussulto di decenza. Inoltre il Comune si è impegnava a versare a TRANSDEV circa 3 milioni di euro l’anno a titolo di ‘consulenza’. Dunque AMT continuava a ricevere i finanziamenti statali del Fondo Nazionale Trasporti e Transdev la gestiva come socia e consulente del Comune, facendo un investimento a rischio zero, anzi a rendimento garantito, come se avesse comprato dei BOT. Più che un’operazione industriale sembra un contratto d’opera finalizzato alla riduzione del costo del lavoro e del servizio per conto della politica. Il primo atto della nuova gestione infatti è la chiusura della metropolitana alle 21 invece che a mezzanotte. Il servizio passa dai 32 milioni di chilometri del 2003 ai 27 del 2011. I 2718 dipendenti di fine 2003 (AMT+AMI) nel 2011 diventano 2444. Il biglietto aumenta da 1,20 a 1,50 euro, dando a Genova un altro invidiabile primato: dopo essere stata la prima città a privatizzare diventa la città col biglietto più caro d’Italia.
Nel 2010, sindaca Marta Vincenzi (PD), RATP, società di gestione del trasporto pubblico parigino, acquista Transdev Italia, nell’ambito di una fusione tra la stessa Transdev e Veolia e dunque asume la gestione di AMT, ma per poco. Nel marzo del 2011 infatti la società annuncia che a fine anno lascerà Genova. La ragione di questa scelta è la bocciatura del piano industriale presentato dal socio privato a fine 2010 e inizialmente sottoscritto dal sindacato, che prevede 500 esuberi, gestiti in parte attraverso l’introduzione della cassa integrazione in un’azienda di trasporto (in deroga al contratto nazionale di settore) e in parte attraverso accompagnamenti alla pensione, oltre a un taglio secco di circa 3,5 milioni di chilometri annui alle corse. I sindacati CGIL CISL UIL FAISA UGL inizialmente firmano. L’intesa contiene due allegati: uno prevede un aumento del monte ore per i permessi sindacali di mille ore per ciascuna delle 5 organizzazioni ‘per spiegare l’accordo ai lavoratori’, l’altro riguarda la cosiddetta ‘ricostruzione di carriera’ per i sindacalisti che rientrano in azienda, a cui riconosce la massima progressione che avrebbero potuto ottenere se fossero rimasti a lavorare. Ma mentre ancora si svolgono le assemblee in vista del referendum confermativo il sindacato annuncia che la consultazione è sospesa e la firma in calce all’accordo viene ritirata. Una decisione provocata dalla reazione furibonda dei lavoratori contro l’accordo, che mette a rischio l’approvazione. E’ a quel punto che RATP annuncia che a fine anno leverà le tende. Il nuovo presidente di AMT, appena nominato, va a mettere il naso nei bilanci e vi scopre ‘consulenze da un milione di euro l’anno, affidate agli uomini di Transdev e non si capisce a quale titolo e scopo; premi da 100 mila euro all’anno, per il direttore generale e l’amministratore delegato, che dovrebbero scattare soltanto al raggiungimento degli obiettivi, primo fra tutti il pareggio di bilancio; mentre la società perdeva soldi e il servizio regrediva’, generose elargizioni che secondo il manager sarebbero costate circa 10 milioni di euro dal 2006 al 2009. Il presidente punta il dito anche contro i ‘bilanci sempre in perdita, ma che apparentemente venivano presentati migliori di quanto non lo fossero veramente’, ‘perdite non evidenziate, soldi che la società ha perso, che non ha contabilizzato o che ha ammortizzato in più anni, quindi trasformandoli in utili (…) Per esempio l’ammortamento degli autobus. Fino all’ingresso dei francesi in AMT venivano ammortizzati in 8 anni, poi in 12. È chiaro che in questo modo ogni anno se ne trae un beneficio sul conto economico. Per esempio per il 2006 questo ha giocato per circa 2 milioni di euro’ (Repubblica091011). E se qualcuno obietta che il pubblico avrebbe dovuto controllare la risposta è: perché il pubblico che non sa gestire invece dovrebbe essere in grado di controllare?
A Firenze la privatizzazione di ATAF arriva nel 2012, quando sindaco è Matteo Renzi. Il socio a cui viene affidato il controllo è BusItalia, la società con cui Trenitalia da qualche anno sta facendo shopping di aziende di trasporto pubblico locale. I risultati sono: il passaggio da 1300 a meno di 1000 dipendenti, con subito 194 esuberi gestiti mediante prepensionamenti e (per i giovani) trasferimenti presso altre aziende BusItalia in Veneto, Umbria e Campania, la disdetta del contratto integrativo, un servizio che dal 2013 rimane abbastanza stabile tra i 14 e i 15 milioni di chilometri, un aumento del costo del biglietto del 25% (da 1,20 a 1,50 euro) da luglio di quest’anno a fronte di un servizio peggiore con ritardi, continue soppressioni di corse, mezzi sovraffollati, al punto che a maggio Repubblica ha lanciato una campagna intitolata ‘Un bus chiamato desiderio’, invitando i fiorentini a segnalare ritardi e soppressione di linee alla propria redazione e che lo stesso sindaco Nardella di recente ha accusato ATAF di ‘totale inefficienza e impreparazione’.
D’altra parte non c’è bisogno di andare lontano: a Roma il 20% delle linee urbane sono gestite da una società privata, Roma TPL, e in questo caso oltre ai ritardi e alle corse soppresse si aggiungono gli stipendi non pagati ai dipendenti ed esponenti sindacali licenziati per rappresaglia per aver denunciato l’inefficienza dell’azienda e reintegrati dal Tribunale, come è accaduto nel 2014.
Forse non è un caso se nelle maggiori capitali europee, Berlino, Londra, Parigi, Barcellona e Madrid si è scelto di mantenere la gestione diretta del trasporto pubblico da parte dei comuni.
Ovviamente ciò non significa che ATAC e in generale le aziende di trasporto pubblico locale delle grandi città siano efficienti e ben amministrate, che non vi siano sprechi e sacche di malaffare. Ma questi problemi si risolvono andandoli a estirpare alla radice e non individuando come capro espiatorio i lavoratori, che non sono responsabili della gestione aziendale, ma ne subiscono le conseguenze insieme agli utenti. Del resto quando parliamo di partecipate parliamo di società perlopiù ancora formalmente pubbliche, ma in realtà gestite secondo logiche di mercato che col servizio pubblico non hanno più nulla a che fare e già parzialmente privatizzate dall’interno attraverso i processi di esternalizzazione di gran parte delle attività.
In questo quadro alcune misure, finanziarie e politiche, potrebbero essere prese subito:
– sottoporre a revisione tutti i contratti tra ATAC e soggetti terzi (mutui, locazioni, appalti, fornitori), che di solito sono una delle maggiori fonti di sprechi e il mezzo attraverso cui le aziende partecipate veicolano fondi pubblici verso soggetti vicini alla politica, spesso riconoscendo a questi tariffe e condizioni nettamente migliori rispetto a quelle di mercato.
– riaprire col nuovo Ministro dei Trasporti Toninelli la questione dei 4 miliardi promessi dell’ex ministro Delrio per il rinnovo del parco mezzi e apparentemente arenati nelle sabbie mobili del Parlamento, fondi senza i quali le aziende non sono in grado di farcela da sole.
– cominciare a ragionare in modo serio, non per slogan, su come ridurre il potere della burocrazia all’interno delle società partecipate e garantire invece forme di controllo sulla gestione di ATAC e delle altre aziende di Roma Capitale da parte di chi ha più interesse a far funzionare i servizi: i lavoratori e gli utenti.
INDIA 14mila tranvieri in sciopero a Delhi
A fine ottobre i dipendenti dell’azienda di trasporto pubblico locale della capitale indiana sono entrati in sciopero per protestare contro una decurtazione salariale del 25% inflitta agli autisti a tempo determinato (quasi 12 mila in un’azienda di 25mila addetti). Chiedevano di fermare il provvedimento, anzi di avere gli stessi stipendi dei colleghi a tempo indeterminato e più mezzi, onde evitare di vedersi cancellare di lavoro perché nei depositi non ci sono abbastanza bus. Colpisce che, tenuto conto dell’enorme distanza che separa la società indiana dalla nostra, emergano comunque alcune analogie rispetto ai problemi dei lavoratori del trasporto pubblico italiano. La globalizzazione ha reso la mobilità un settore ancor più strategico che in passato e il tentativo di indebolire i lavoratori del settore è globale.
Il primo sciopero dei lavoratori DTC in 30 anni finisce in modo trionfale
Mentre il governo di Delhi invocava l’ESMA per evitare lo sciopero, migliaia di lavoratori il 29 ottobre boicottavano il lavoro, costringendo la DTC a ritirare i tagli ai salari.
Mallika Khanna, The Wire, 29 ottobre 2018
New Delhi: l’autista di autobus Rajesh Chopra dipinge a tinte fosche le condizioni di lavoro dei dipendenti a contratto alla Delhi Transport Corporation (DTC). Sveglia alle 3 ogni mattina, due ore di viaggio da fuori Sonepat fino al deposito che gli è stato assegnato. Spesso per scoprire che non gli è stato dato un turno a causa del caos permanente che regna nella gestione degli orari. La moglie si sveglia anche più presto per preparare la cena da consumare al termine di una giornata di lavoro che può durare più di 12 ore. In tutto ciò Chopra lamenta soprattutto di non poter neanche trascorrere le giornate di festa nazionale, come Diwali, con la famiglia.
Lunedì, con questa situazione in mente, i lavoratori della DTC e i dirigenti del sindacato hanno dato vita al primo grande sciopero da 30 anni a questa parte. Oltre 12mila dipendenti a contratto e 2mila a tempo indeterminato sono restati a casa o sono scesi in piazza. Un comunicato stampa di Abhishek, segretario generale della confederazione sindacale All India Central Council of Trade Unions (AICCTU), denuncia gli arresti di prima mattina di numerosi dirigenti sindacali. Una mossa realizzata dopo che sabato il governo di Delhi aveva invocato la Legge a Protezione dei Servizi Pubblici Essenziali (ESMA) per evitare che i dipendenti della DTC entrassero in sciopero.
L’accelerazione improvvisa che ha portato allo sciopero è venuta da una circolare del 21 agosto da parte della direzione aziendale, che annunciava la riduzione delle retribuzioni dei lavoratori a contratto di quasi il 25%. Una decisione sopraggiunta dopo una sentenza dell’Alta Corte di Delhi, che ha dichiarato ‘incostituzionale’ il decreto con cui il Governo cittadino aveva deciso di aumentare il salario minimo dei lavoratori. Questi hanno reagito esprimendo tre rivendicazioni: l’immediato ripristino delle retribuzioni anteriori alla sentenza della Corte, il riconoscimento del principio ‘stesso lavoro stessa paga’, sottolineando quindi la necessità di regolarizzare i lavoratori a contratto per garantire loro lo stesso salario dei dipendenti a tempo indeterminato e infine un aumento del numero dei bus aziendali da 3500 a 11mila.
A settembre, nella prima consultazione in vista di uno sciopero mai realizzata nella storia del sindacato locale, un significativo 98,2% su 10mila e 200 lavoratori votanti si era espresso a favore dello sciopero di lunedì. Secondo Abhishek, nonostante vari tentativi del sindacato di aprire un tavolo, la DTC e il governo di Delhi non avevano acconsentito di modificare la propria posizione. Alla fine la DTC domenica notte ha inviato di sua iniziativa una circolare ai dirigenti sindacali in cui diceva di essere disposta a restaurare i vecchi stipendi di prima della sentenza. Tuttavia lo sciopero è andato avanti, perché, per un verso, la circolare è stata inviata troppo tardi per approntare modifiche sostanziali al piano dell’azienda, per un altro, perché le altre due richieste dei lavoratori sono state ignorate.
Rajkumar Sharma, del DTC Workers Unity Centre, spiega che queste richieste hanno grande valore sia per il vantaggio che arrecherebbero ai cittadini di Delhi sia per gli stessi lavoratori. ‘Se avessimo più mezzi potremmo espandere i collegamenti dai punti nevralgici della rete cittadina a molte destinazioni finali. E allo stesso tempo autisti e controllori potrebbero fare i loro turni perché gli autobus sarebbero disponibili e non sarebbero costretti a viaggiare ore e ore per poi scoprire alla fine che quel giorno non possono lavorare’. Di conseguenza, aggiunge, ‘i cittadini di Delhi non si ritroverebbero costretti a scegliere tra mezzi privati e mezzi pubblici costosissimi’.
Santosh Roy, presidente dell’AICCTU a Delhi, in una conferenza stampa tenutasi dopo lo sciopero ha dichiarato: ‘Le condizioni dei lavoratori della DTC rimangono deplorevoli. L’azienda non ha nuovi bus in grado di svolgere il servizio ordinario, i livelli di inquinamento continuano a crescere. Vogliamo che sia chiaro al Governo che i temi sollevati dai lavoratori sono anche quelli più sentiti dalla gente comune. Il governo può scegliere di disinteressarsene, ma lo fa a suo rischio e pericolo’.
Il punto di vista dei cittadini include anche altre questioni. A una conferenza stampa organizzata dall’AICCTU sabato per esprimere solidarietà ai lavoratori della DTC, Gopal Pradhan, del movimento degli insegnanti di Delhi, ha sottolineato la relazione triangolare tra istruzione, inquinamento e trasporto pubblico. Come docente all’Università di Ambedkar ha sottolineato quanto il trasporto pubblico sia necessario per portare gli studenti che vivono in aree altrimenti inaccessibili fino alle aule scolastiche. Inoltre ha osservato che c’è un enorme bisogno di ridurre l’inquinamento, un bisogno che riguarda non soltanto gli studenti, che spesso si ammalano a causa dell’aria irrespirabile di Delhi, ma più in generale l’intera popolazione.
A chi gli chiedeva se l’arrivo di nuovi mezzi e un aumento degli stipendi avrebbe provocato nuove perdite a un’azienda che già lamenta una paralisi dovuta alla mancanza di risorse, un indignato Dhirender Sharma, segretario generale della centrale sindacale All India Trade Union Congress (AITUC) a Delhi, ha risposto indicando tre possibili fonti di introiti per l’azienda: la riapertura delle officine di Okhla, chiuse un anno fa, la riapertura della tipografia aziendale e un nuovo ed efficiente sfruttamento dei terreni di proprietà della DTC. Inoltre ha sottolineato la possibilità di usare i mezzi aziendali per campagne pubblicitarie, precisando che le perdite della DTC non devono ricadere sulle spalle dei lavoratori.
Il problema è che i lavoratori della DTC vengono visti come una fonte di deficit invece che come un patrimonio aziendale. La storia di Rajesh Chopra è la storia di uno dei 12mila casi di negligenza a cui sono soggetti i dipendenti a contratto. Più che di condizioni di lavoro estenuanti Chopra spiega quanto sia stato ‘psicologicamente stressante’ navigare in mezzo alle manfrine burocratiche dell’azienda.
‘Nessuno si preoccupa di noi. Non ci sono controlli sull’inquinamento, nessun accesso a esami medici e noi non abbiamo abbastanza soldi per poterci permettere un medico quando ne abbiamo bisogno. Non ci vengono pagati gli straordinari per le 4-6 ore di lavoro extra che spesso ci ritroviamo a fare e anche le nostre famiglie sono sotto pressione a causa dei lunghi orari che facciamo e delle retribuzioni misere’. Ciò comporta pericolosi livelli di stress che rendono difficile lavorare al meglio. La mancanza di sonno, che è tipica del lavoro alla DTC, non fa che portare a estreme conseguenze gli effetti del lavoro sul loro equilibrio psichico. Queste clamorose negligenze fanno emergere una situazione che va ben oltre il tema degli stipendi. Si tratta di un problema strutturale, che richiederebbe non solo pazienza, ma l’avvio di vere e proprie trattative tra l’azienda e i suoi dipendenti.
The Wire ha contattato Gopal Rai, Ministro del Lavoro del governo di Delhi, per un commento, ma sta ancora aspettando una risposta. Nagender Sharma, consulente per la comunicazione del Governo, dichiara di non considerare lo scontro tra I lavoratori e la DTC come una delle maggiori preoccupazioni del governo diretto dal Partito Aam Aadmi Party (partito anticorruzione nato nel 2012, con un’ispirazione che qualcuno assimila al socialismo, sebbene loro si dichiarino postideologici e rifiutino alleanze con chiunque NdT). ’E’ una questione che riguarda la DTC, non il Governo di Delhi. Ma posso dirvi che quasi il 90% dei lavoratori non è in sciopero’, ha detto.