Superlega, anche l’industria del calcio è globale
Per qualcuno alla fine hanno vinto lo sport e i suoi ideali, ma se guardiamo ai numeri quello sulla Superlega è stato semplicemente lo scontro di due concezioni differenti dell’industria del calcio, legate alle diverse situazione materiali dei club. Se l’economia è globale e il calcio è un’industria, il piano dei superclub, oggi naufragato miseramente, potrebbe riproporsi.
ANTONGIULIO MANNONI, 4 maggio 2021
La vicenda è nota: nella notte tra domenica 18 e lunedì 19 Aprile, 12 club tra i principali del calcio europeo annunciano la creazione di un proprio torneo chiamato Superlega. Un campionato privato tra 12 squadre più cinque che avranno il privilegio di essere scelte di volta in volta per accedere a questo club esclusivo i cui portavoce affermano di avere già in tasca l’impegno di altre potenze calcistiche ad aderire. Nelle 48 ore successive la notizia ha il potere di far sparire dalle prime pagine l’emergenza della pandemia, di mobilitare i massimi vertici politici europei (Macron, Merkel, Draghi, Johnson, Sanchez) in un moto comune di indignazione; di scatenare gli organi di governo del calcio a tutti i livelli nella minaccia di sanzioni, espulsioni, ritorsioni legali contro i club coinvolti; di produrre un fiume di dichiarazioni e analisi da parte di allenatori, giocatori, commentatori sportivi e opinionisti più o meno esperti su tutti i canali della comunicazione contemporanea; persino di generare mobilitazioni di piazza e manifestazioni negli stadi da parte delle tifoserie storiche soprattutto inglesi, ma anche spagnole e, in minima parte, italiane. Di conseguenza, tra retromarce imbarazzanti e scuse pubbliche di alcuni club, il progetto viene ritirato o, nell’interpretazione di alcuni, soltanto accantonato.
Interessa poco, in questa sede, entrare nelle dinamiche specifiche del mondo del pallone che hanno portato a questo scontro. Quello che è interessante approfondire è invece il significato più complessivo da un punto di vista sociale e politico, il carattere rivelatore, paradigmatico, di questa vicenda rispetto al contesto in cui è nata. Perché il calcio, e forse ormai solo il calcio, riesce ad essere un fenomeno che va ben oltre il suo significato strettamente sportivo e di gioco, arrivando a coinvolgere nelle sue vicende, come abbiamo visto, persino i massimi vertici politici europei? In fondo, nel basket esiste da vent’anni l’Eurolega, un vero e proprio campionato dei più forti e ricchi club europei basato su licenze decennali (a pagamento) e ridotti meriti sportivi. Certo, il livello di popolarità tra le due discipline è imparagonabile, ma la popolarità è più un effetto che una causa. Nel tempo, infatti, il calcio si è caricato di significati che vanno ben oltre il suo sistema di gioco e di tecniche, e anche di responsabilità che, in fondo, nemmeno gli competono. E’ uno strumento di geopolitica, una fonte economica, ha sostituito molti elementi di coesione nazionale e di identità in crisi (partiti politici, chiesa, luogo di lavoro, tradizioni locali), oltre a produrre contro e sottoculture (si pensi agli Ultras). Anche il mondo del calcio è quindi investito e vive la contraddizione che caratterizza questa epoca: il superamento delle entità nazionali e locali per effetto della globalizzazione economica e delle tecnologie della comunicazione, e la necessità di conservare o avere un’identità, un’appartenenza di cui, spesso suo malgrado, diventa interprete.
In questo senso, la vicenda della Superlega è, come dicevamo, paradigmatica. I 12 club coinvolti (e anche molti sin da subito contrari) sono da tempo squadre globalizzate e non a caso occupano (con l’eccezione del Bayern di Monaco) tutte le prime posizioni della classifica mondiale dei tifosi dominata dal Manchester United con una stima di 650 milioni di tifosi, cui seguono Barcellona con 450 milioni e Real Madrid con 350 milioni. La prima italiana è la Juventus (ottava) con 27 milioni di tifosi in tutto il mondo. Prendendo ad esempio il primo in classifica, la vendita delle sue magliette nel globo è pari a 2.850.000 pezzi all’anno. Non è certo un caso se il disegno delle casacche delle squadre cambia ogni anno e il numero delle divise di gioco per stagione si moltiplica a dismisura. A livello proprietario, poi, questo aspetto è ancora più evidente: fondi americani e arabi, società cinesi, magnati russi hanno da tempo acquistato importanti squadre europee, molte delle quali direttamente coinvolte nell’operazione Superlega. Anche laddove il quadro legislativo e la tradizione favoriscono l’azionariato diffuso, come in Spagna e Germania, questo non è certo un antidoto alla gestione dei campionati e dei club come imprese economiche globali. In effetti, si parla ormai comunemente di “industria del calcio” e le cifre economiche in campo non smentiscono certo questa definizione. Il rapporto annuale sul calcio nel nostro paese di PricewaterhouseCoopers Italia, curiosamente a cura e con prefazione di Enrico Letta, fornisce un quadro completo dell’impatto del calcio sull’insieme dell’economia nazionale. L’impatto socio-economico generato dal professionismo calcistico, che riguarda poco più 1.300.000 persone tra calciatori, tecnici, dirigenti e arbitri, è calcolato in circa 3 miliardi di euro. L’apporto al PIL nazionale è dello 0,22%. Non una grande cifra in termini assoluti, certamente sproporzionata al peso di cui gode da un punto di vista politico e sociale questa “industria” un po’ particolare. Chi di fronte alla Superlega si è indignato, invocando una presunta violazione di chissà quale codice di onore e meritocrazia sportiva dell’attuale situazione, lo ha fatto per interesse occultando i privilegi e i favoritismi di volta in volta concessi anche della politica alle società più potenti e alla federazione che le rappresenta: la FIGC. Basti ricordare che per ripulire la sua immagine screditata dallo scandalo di “calciopoli”, solo uno dei tanti nella sua storia, nel 2007 fu scomodato persino il giudice di mani pulite Saverio Borrelli. La spinta alla trasformazione del calcio in business ha trovato un puntuale supporto legislativo che ha permesso di mutare le società calcistiche in Spa, godendo però di vantaggi e privilegi particolari. L’indebitamento complessivo dei club di serie A nel 2019 ha sfondato i 4 miliardi di euro a fronte di un patrimonio netto aggregato delle società pari a 551 milioni di Euro (BusinessInsider030321). Una situazione catastrofica, aggravata anche dal Covid, e che però periodicamente beneficia di interventi a carico della finanza pubblica per evitare il collasso. Si va dal Decreto “salvacalcio” del Governo Berlusconi (all’epoca proprietario del Milan) fino alle misure del Decreto Rilancio del 2020, che consentono in sostanza un rinvio di pagamenti fiscali e previdenziali, la possibilità di spalmare l’indebitamento nei bilanci fino a venti anni, la sospensione dei canoni di locazione e di superficie degli impianti sportivi, ecc. Un trattamento di favore puntualmente giustificato dai governi di ogni orientamento con l’esigenza di salvaguardare un’industria fondamentale e un introito per l’erario e la previdenza di poco superiore al miliardo di euro grazie anche al contributo del prelievo fiscale sulle scommesse. La politica e la burocrazia statale si mettono a disposizione del calcio per interesse elettorale o per alimentare un circuito di corruzione legato agli enormi flussi di denaro anche pubblico legati al fenomeno del pallone. Il caso più emblematico è stato il mondiale di Italia ’90 (FattoQuotidiano080620) costato alle casse dello stato 6.000 miliardi di lire, oggi rivalutabili in 7 miliardi di euro, e alla categoria degli edili 24 morti a causa delle deroghe alla sicurezza e alla pressione ad affrettare i tempi nei cantieri. Cantieri di opere faraoniche inutili e già demolite, o rimaste, come gli stadi frettolosamente ampliati o costruiti ex novo sulla base di previsioni di pubblico assolutamente illogiche solo per farne lievitare i costi (fino al 180% nel caso dello Stadio Olimpico di Roma), a carico delle casse comunali per tutti gli oneri di mantenimento e gestione. Un ulteriore, perfetto esempio di profitto privato a spese della finanza pubblica, dato che i ridicoli canoni che le società calcistiche pagano, spesso in ritardo, ai comuni che hanno in gestione gli stadi non compensano affatto il costo di mantenimento di questi impianti. Altri 17 milioni di euro sono stati spesi per ammodernare gli stadi che hanno ospitato i Campionati Europei under 21 nel 2019. Questo ulteriore esborso non ha affatto compensato la vetustà degli stadi italiani e la loro inadeguatezza rispetto agli standard di fruizione da parte del pubblico cui sono orientate le maggiori società di calcio internazionali. Il 93% degli stadi italiani è di proprietà pubblica e ha una età media di 63 anni, e solo il 58% di posti al coperto. Da questo punto di vista il divario con le società calcistiche del club dei 12 scissionisti, anche per le squadre italiane coinvolte nel progetto, è enorme. Gli stadi polifunzionali di ultima generazione, di proprietà e gestione dei club e non più degli enti pubblici, come lo Stamford Bridge del Chelsea, il Tottenham Hotspur Stadium, l’Allianz Arena del Bayern di Monaco, il Camp Nou del Barcellona o Santiago Barnabeu del Real Madrid, solo per fare qualche esempio, sono progettati per ospitare vari eventi tutto l’anno e rappresentano una fonte di guadagno per i club in una logica di diversificazione delle entrate. Lo stadio più redditizio d’Europa, il Camp Nou, per esempio, nella stagione 2017-2018 ha generato un introito di 144 milioni di euro. Il gigantismo architettonico degli stadi da 160.000 posti come il Maracanà brasiliano è stato sostituito da un modello esclusivo fatto di posti a sedere, hospitality, box privati, ristoranti, parcheggi sotterranei, musei, ecc., e ovviamente, biglietti sempre più cari per fare della partita e della trasferta non più un appuntamento settimanale, ma un “evento” cui assistere poche volte lasciando il resto alla visione in tv. Solo la Juventus si è avvicinata in Italia a questo modello, ma a Roma e a Milano il futuro elettorale degli attuali sindaci si gioca anche sulla risposta da dare alle squadre della città rispetto ai loro progetti di ristrutturazione di San Siro e dell’Olimpico. Né poteva mancare un provvedimento ad hoc del Governo, che con Gentiloni ha varato una norma tesa a garantire la “bancabilità” e semplificare l’iter burocratico a quelle società interessate a investire in strutture sportive.
Nonostante gli stadi, il merchandising, gli sponsor, i diritti televisivi, il botteghino, al profondo rosso di bilancio non sfugge nessuno dei top club coinvolti nella Superlega, a causa di una gestione societaria che se si confrontasse con i criteri e le regole delle imprese economiche “normali” avrebbe già determinato il fallimento e probabilmente l’incriminazione dei presidenti e degli organi amministrativi. Il loro indebitamento complessivo ammonta a 7,7 miliardi di euro, e il peggio probabilmente deve ancora arrivare, dato che si stima a causa del Covid una perdita di ricavi tra i 6 e i 7 miliardi di euro da ripartirsi tutti a carico dei vari club.
Si sa che la fonte di introito principale del calcio moderno sono i diritti televisivi sulle partite. Si stima che i diritti televisivi della Superlega, considerato un potenziale di pubblico pari a 4 miliardi di tifosi nel mondo, con i relativi abbonamenti alle pay-tv, avrebbero potuto ammontare a 10 miliardi di euro all’anno. 4-5 volte di più del valore dei diritti televisivi dell’attuale Champions League da spartirsi, inoltre, non più tra 32 squadre, ma al massimo tra 20. Senza contare le ricadute economiche su tutto il resto dell’indotto: dagli sponsor al merchandising. Un affare potenzialmente enorme sia per le società coinvolte, sia per i loro azionisti, che per la JP Morgan che contava su una redditività a due cifre del suo investimento iniziale di 3.5 miliardi di euro. L’interesse economico dei promotori dell’operazione è evidente, così come quello di quanti si sono opposti con così tanta forza e, alla fine, efficacia. In assenza del top club le attuali competizioni internazionali, così come i campionati locali se fosse andato in porto il provvedimento di espulsione dei “ribelli”, si sarebbero rapidamente svalutati agli occhi degli appassionati di calcio e, di conseguenza, anche degli sponsor e delle televisioni. Le squadre e le competizioni escluse sarebbero entrate in un circolo vizioso tra meno risorse disponibili, meno ingaggi di qualità, meno interesse praticamente senza fine con il risultato di una polarizzazione sempre maggiore tra club super ricchi e club in difficoltà.
Oltre che interessata, quindi, la levata di scudi da parte della UEFA, della FIFA (sui cui scandali e corruzione si potrebbe lungamente disquisire) e della FIGC è anche un monumento all’ipocrisia. Tra due anni, infatti, nella stessa logica della Superlega che vede nella moltiplicazione a dismisura delle partite il canale principale di aumento degli introiti per le società calcistiche, la UEFA inaugurerà una nuova formula della Champions League a 36 squadre che garantirà a ogni club partecipante un minimo di 10 partite contro le attuali 3. Inoltre, nella stagione 2021-2022 prenderà il via una terza competizione europea per club: la Conference League aperta a 184 squadre. Anche il Mondiale di Calcio nella prossima edizione passerà dalle attuali 32 nazionali a 48. In Italia, infine, nessuno mette in discussione l’allargamento del campionato a 20 squadre, la moltiplicazione dei tornei o che per raccogliere qualche soldo dalle televisioni, le ultime finali della Supercoppa italiana si sono giocate a Doha, Gedda e Riad.
La bulimia di incontri, paragonabile alla sovrapproduzione di merci, sembra essere l’unica risposta del mondo del calcio modello società per azioni globale alle sue difficoltà finanziarie. C’è da chiedersi se e per quanto questa strada per certi versi obbligata potrà funzionare o non finirà per logorare per troppa offerta e ripetitività anche l’interesse più radicato del tifoso o dell’appassionato di calcio. Anche l’emozione di un clasico Barcellona-Real Madrid se ripetuta per decine di volte può finire per annoiare. Già oggi nel tifoso più giovane l’interesse per il calcio è più legato alla socialità che ne deriva che allo sport in sé, e la partita vera e propria è seguita attraverso gli highlights piuttosto che per tutta la durata dell’incontro (Fan of the future. Defining Modern Football Fandom).
La vicenda della Superlega asseconda e rivela un fenomeno di polarizzazione della ricchezza, di proiezione verso un mercato globale, di lotta senza esclusione di colpi per l’accaparramento delle risorse già ben noto a livello economico complessivo e in via di ulteriore accelerazione in questa fase e che non risparmia nessun settore, nemmeno il calcio. Inoltre, da un punto di vista dei protagonisti: presidenti, dirigenti sportivi, manager, calciatori, mostra la loro natura di super privilegiati interessati a conservare e ad ampliare la loro condizione di distacco e di privilegio fatta di spregiudicatezza finanziaria, senso di impunità, voli privati, feste, cene, tamponi e vaccini proibiti ai più, ancor più evidente in questa fase di emergenza sanitaria e di crisi economica. Un privilegio che è anche “salariale”, come testimoniano due semplici cifre: tra il 2017 e il 2018 il costo del lavoro del calcio professionistico è aumentato del 14,6%, mentre per i lavoratori dipendenti italiani aumentava tra il 2% e il 2,5%.
Biden sarà un nuovo Roosevelt?
In questo breve editoriale, Dan La Botz, studioso e attivista del movimento operaio americano, che avevamo intervistato a novembre poco dopo l’elezione di Biden, analizza le aspettative create da quella che qualcuno vede come la “svolta a sinistra” del Presidente USA. È davvero così?
DAN LA BOTZ, New Politics, 4 maggio 2021
La questione più discussa negli ultimi tempi è: il presidente Joseph Biden sarà un nuovo Franklin Delano Roosevelt? La presidenza di Roosevelt, dal 1933 al 1945, trasformò gli Stati Uniti col suo New Deal, un insieme di programmi di welfare che riscrisse il patto sociale su cui era fondata la nazione. Nel corso della Grande Depressione degli anni ‘30, con le banche al collasso, i grandi gruppi che vedevano gli affari contrarsi, le piccole aziende che fallivano e la disoccupazione al 25%, Roosevelt elaborò grandi programmi per creare occupazione, ampliò le misure di assistenza del Governo e, cosa più importante di tutte, introdusse il programma pensionistico Social Security e fece approvare il National Labor Relations Act, concedendo ai sindacati il diritto di organizzarsi nei posti di lavoro. Roosevelt creò anche la New Deal Coalition, formata da organizzazioni sindacali, neri americani e imprese di produzione di beni di consumo, che divenne la base del Partito Democratico nei 75 anni successivi.
Ora, mentre gli USA affrontano un’altra crisi, la pandemia di coronavirus e la contestuale depressione economica, molti si chiedono se Biden riuscirà a mettere in atto una analoga trasformazione. Non sarebbe il primo a emulare quel modello. Negli anni ’60 il presidente Lyndon Baynes Johnson portò avanti una analoga ricostruzione nazionale, approvando il Civil Rights and Voting Rights Acts, che emancipava i neri del sud e per aiutare i poveri introdusse la War on Poverty (guerra alla povertà) e i programmi sanitari ed educativi della Great Society (grande società), in particolare Medicare per gli anziani e Medicaid per i poveri.
Ma sia Roosevelt che Johnson agirono rispondendo a una enorme pressione sociale. La sollevazione del mondo del lavoro negli anni ’30, con ondate di scioperi che comprendevano picchettaggi di massa, occupazione delle fabbriche e scontri con la polizia e la guardia nazionale, spinsero Roosevelt a prendere l’iniziativa, mentre Johnson agì sotto la pressione del movimento per i diritti civili di neri, che era entrato in azione organizzando boicottaggi, sit-in e manifestazioni di massa. Oggi Biden non deve affrontare alcuna pressione da parte dei movimenti sociali, ma, al contrario, ha dovuto fare i conti con l’unico tema della pandemia. La domanda è: può un complesso di leggi di argomento sociale e di natura progressista essere approvata in assenza di una mobilitazione popolare e dei lavoratori?
Cosa sta cercando di fare Biden? Sta cercando di ottenere che il Congresso approvi una legislazione che costerà 6.000 miliardi di dollari – finanziata tassando ricchi e grandi gruppi – e di istituire numerosi nuovi programmi per l’economia, la giustizia razziale e l’ambiente. E sta giustificando questo insieme di misure sostenendo che gli USA devono restare competitivi con le altre nazioni, la Cina in primo luogo. Cioè la politica interna progressista è giustificata dal desiderio di ricostruire l’America così da ristabilire l’egemonia globale dell’imperialismo americano.
Finora a essere approvato è stato l’American Rescue Plan (piano di soccorso) da 1.900 miliardi di dollari per affrontare il COVID. Restano altri due piani: quello per il lavoro, l’American Jobs Plan, da 2.300 miliardi e quello per la famiglia, l’American Family Plan, da 1.800. Ma col Senato spaccato esattamente a metà tra Democratici e Repubblicani sarà difficile vararli passando attraverso il Congresso, specialmente con queste regole antiquate che normalmente richiedono una maggioranza del 60% affinché le leggi siano approvate.
Il dibattito su questi provvedimenti è stato inquadrato nei termini di un programma per ricostruire l’infrastruttura della nazione. I Repubblicani definiscono infrastrutture le strade, i ponti, le linee ferroviarie e forse anche la banda larga, mentre Biden e i Democratici sostengono che cose come gli asili nido, una più ampia copertura assicurativa per la salute e due anni di educazione gratuita al college debbano essere anch’esse incluse nell’elenco. Il piano di Biden per affrontare il cambiamento climatico espandendo le fonti di energie alternativa deve affrontare l’opposizione dei Repubblicani e delle compagnie petrolifere. Ma viene criticato anche dai gruppi ambientalisti, i quali affermano che è insufficiente. L’esponente progressista del Partito Democratico Alexandria Ocasio Cortez dice che dovrebbe essere quattro volte più grande.
I Democratic Socialists of America (DSA) hanno appoggiato il senatore Bernie Sanders e Biden ha, di fatto, adottato il programma di Sanders, che era anche il programma dei DSA. Perciò forse i membri di DSA pensano di aver avuto successo e di essere riusciti a spostare i Democratici. Ma dovremmo ricordare che la stessa cosa successe anche negli anni ’30, quando Roosevelt, pragmaticamente, adottò gran parte del programma del Partito Socialista americano, spingendo quel partito ad assottigliarsi man mano che i socialisti si trasformavano in Democratici.
DAN LA BOTZ è un insegnante, scrittore e attivista e vive a Brooklyn. È condirettore di New Politics.
SEGNALAZIONI
Sul Piano Nazionale di Resistenza e Resilienza abbiamo espresso alcune considerazioni parziali e a caldo nella scorsa newsletter. Nei giorni scorsi sono uscite molte analisi. Ve ne segnaliamo tre che affrontano i contenuti del piano approfondendo alcuni singoli argomenti di particolare rilevanza sociale: il primo, di Simone Fana, parla della “scomparsa” del salario minimo rispetto alla precedente edizione del Piano (Jacobin010521); il secondo, scritto a quattro mani ancora da Simone Fana e da Francesco Floris, si concentra sul tema delle politiche abitative (TrueNews030521); infine Francesco Zezza analizza i potenziali effetti del PNRR sul divario nord-sud, che, nelle parole di Draghi, era una delle principali preoccupazioni del Governo (KriticaEconomica040521). Ci pare che tutte e tre queste riflessioni confermino il nostro giudizio, in particolare per quanto riguarda la continuità con le politiche dei precedenti governi.