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GUERRA&ARMAMENTI Diversamente dall’idea che ci viene veicolata in questi giorni il riarmo italiano non inizierà a causa dell’invasione russa dell’Ucraina, ma è già iniziato da tempo, così come le scelte dell’industria militare nazionale e dei governi (a cui spetta autorizzare le esportazioni) non sembrano essere mai state influenzate da considerazioni circa il tasso di democrazia degli Stati acquirenti. L’Italia ha venduto mezzi militari alla Russia di Putin persino dopo l’entrata in vigore dell’embargo del 2014, alcuni dei quali sono finiti a milizie sciite in Siria, altro oggi sono sui campi di battaglia dell’Ucraina. Quanto all’embargo europeo, anch’esso si ispira alla vecchia massima latina “pecunia non olet”. Eppure oggi in Italia vi sarebbero le forze per una contestazione di massa della politica del governo e alcuni casi internazionali, nel pieno della pandemia, mostrano che la riconversione dal militare al civile è possibile. Ne parliamo con un ricercatore del SIPRI di Stoccolma e con Gianni Alioti, ex responsabile dell’ufficio internazionale della FIM CISL.


Armare Zelenski dopo aver armato Putin

Dall’Ucraina arrivano immagini dei blindati Lince che l’Italia ha continuato a vendere a Putin anche dopo che è scattato l’embargo europeo. E quando sui campi di battaglia ucraini arriveranno anche le armi anticarro inviate da Draghi potremmo trovarci di fronte al paradosso di  armi italiane che sparano contro mezzi italiani. 

Uno dei temi più dibattuti dopo l’invasione russa dell’Ucraina è l’opportunità di inviare armi al governo ucraino e allo stesso tempo di aumentare le spese militari dei paesi europei, Italia inclusa.

Armare Zelenski…

Secondo Milex, l’osservatorio sulle spese militari, nel 2022 l’Italia si avvia a stabilire il record di 25,5 miliardi di euro di spese militari (+3,4% in un anno e quasi +20% in tre anni), di cui 8,27 per l’acquisto di nuovi armamenti, un balzo in avanti storico del 13,8% in un anno. Dunque si tratta di un trend che precede e non ha nulla a che vedere con l’invasione russa dell’Ucraina. Il 16 marzo la Camera ha approvato con 391 favorevoli e 19 contrari un ordine del giorno della Lega, che chiede di portare le spese militari al 2% del PIL (da 25 a 40 miliardi di euro l’anno), come ha detto di volere anche Draghi. Nei giorni seguenti, però, la Lega ha cominciato a tentennare e anche il M5S, dopo aver votato sì alla Camera, ha cambiato idea. Dietrofront dovuti alla reazione dell’opinione pubblica, ma anche di un ampio spettro di forze sociali. 

Secondo due recenti sondaggi EMG il 55% degli italiani è contrario all’invio di armi e il 48% all’aumento della spesa militare. Su questa posizione si è aggregato un vasto campo di organizzazioni e singoli individui, tra cui CGIL, ANPI, ARCI, intellettuali ed esperti come Donatella di Cesare e Alessandro Orsini, additati dal quartier generale dell’informazione embedded come traditori della patria, ma anche voci che i leoni da talk show, forti coi deboli e deboli coi forti, non hanno il coraggio di flagellare, da Edith Bruck, scrittrice ebrea sopravvissuta ai Lager, a Papa Francesco.

Critiche e distinguo sono arrivati persino dai militari. Un editoriale di Gianandrea Gaiani, “I rischi della belligeranza”, su AnalisiDifesa110322, ha ricordato che “nel 2014, quando fornimmo armi anticarro ai curdi impegnati a combattere lo Stato Islamico l’ex ministro della Difesa, Arturo Parisi (PD), fece presente che con tali forniture l’Italia diventava belligerante” e che le armi inviate dall’Italia all’Ucraina (“Indiscrezioni riferiscono di mitragliatrici MG 42, missili antiaerei Stinger e di armi anticarro, non è chiaro se missili israeliani Spike, lanciarazzi Panzerfaust 3 o gli spagnoli Instalaza C90 acquisiti a suo tempo dalle nostre forze speciali”) “non faranno la differenza sul campo di battaglia, non cambieranno le sorti della guerra a favore di Kiev, potrebbero al massimo rendere più sanguinoso il bilancio delle perdite russe”. Gaiani aggiunge che “La differenza queste forniture italiane la stanno però facendo in ambito politico e diplomatico, privando Roma di carte che avrebbe potuto giocare per porsi come interlocutore negoziale credibile. Ruolo che invece ricoprono bielorussi, turchi e israeliani ma che non può certo rivestire chi diventa, anche indirettamente, belligerante.” Mentre altrove Gaiani svela che la spesa militare al 2% avrebbe effetti molto limitati: “poter sostenere una guerra di questo tipo [convenzionale] della durata di almeno un mese.” (AnalisiDifesa210322).

…dopo aver armato Putin

Nessuno invece sta parlando delle armi europee vendute a Putin. Secondo i dati del CAAT (Campaign against Arms Trade) pubblicati da Giorgio Beretta dell’OPAL (Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e le Politiche di Difesa e di Sicurezza) dal 1998 al 2020 i paesi dell’Unione Europea hanno concesso quasi 12.000 autorizzazioni per la fornitura di armi alla Russia per un ammontare di 1,9 miliardi di euro, di cui 744 milioni effettivamente consegnati. Scorporando i dati per anno (vedi grafico sotto) possiamo osservare che il picco delle vendite – 129 milioni su 744 – si registra nel 2014, l’anno in cui Putin si annette la Crimea, mentre l’anno dopo il valore delle transazioni autorizzate tocca il terzo valore più alto dell’intero periodo (oltre 208 milioni di euro). “Nel bel mezzo di una crisi in cui la Russia ha dispiegato le proprie forze sul suolo ucraino – commenta il Washington Post nel giugno del 2014 – le nazioni europee stanno lottando per trovare un equilibrio tra considerazioni economiche e politiche” e i più generosi nel concedere autorizzazioni sono Germania (879 mln), Francia (439), Gran Bretagna (260) e Italia (135).

FIGURA 1: esportazioni di armi dall’UE alla Russia (Fonte: CAAT)

Due anni dopo fonti ucraine scrivono: “l’Italia, nonostante un divieto esplicito di inviare equipaggiamento militare alla Russia continua a fornire al Ministero della Difesa russo i veicoli blindati leggeri Iveco LMV Lince. Russia e Italia hanno sottoscritto un contratto per la vendita di circa 350 nuovi modelli nel 2011. Dieci veicoli completamente assemblati sono stati inviati in Russia, mentre il resto viene assemblato utilizzando componenti spediti dall’Italia nell’impianto di manutenzione autoveicoli n. 172 a Voronoezh e negli stabilimenti Remdizel di Naberezhnye Chelny. La documentazione di accompagnamento dell’accordo russo-italiano per la fornitura degli Iveco LMV Lince mostra che questo è ancora in vigore e non ha cessato di funzionare neppure per un giorno. È per questo che l’Italia continua a premere per il ritiro delle sanzioni alla Russia?”. A chiederselo è Mykhailo Samus, ex militare ucraino, all’epoca rappresentante del Center for Army, Conversion and Disarmament Studies, oggi animatore del New Geopolitics Research Network, intervistato da Krim.Realii, portale ed emittente radiofonica della Crimea legata a Radio Free Europe (Euromaidan200716).

“Nel 2014 – prosegue Samus – la Russia ha importato 81 blindati Lince, nel 2015 93. Il piano di produzione 2015-2016 prevede la fabbricazione di 356 veicoli blindati italiani in Russia. È abbastanza interessante che il destinatario finale di tutti i veicoli prodotti in questo periodo sia la Base della riserva centrale per la tecnologia automobilistica numero 91 a Kamensk-Shakhtinskiy, nell’oblast russo di Rostov, perché ciò ovviamente facilita il loro immediato trasferimento nel Donbass  occupato.” Su internet oggi si trovano alcune immagini di questi blindati sui campi di battaglia dell’Ucraina (l’immagine iniziale ne mostra uno distrutto dagli ucraini, Fonte: Facebook). E quando le armi anticarro italiane arriveranno a destinazione potremmo trovarci con armi italiane che sparano contro mezzi italiani. “Forniture italiane su entrambe i fronti” titolava il 17 marzo la Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ170322).

Queste accuse, pronunciate da un analista saldamente schierato nel campo occidentale, vengono confermate tre anni dopo da un articolo di Benjamin Strick pubblicato su Bellingcat, un sito specializzato in OSINT (open source intelligence), il metodo di indagine che utilizza strumenti digitali come la geolocalizzazione delle immagini e le mappe satellitari per raccogliere informazioni in tutto il mondo. Futura D’Aprile sul Domani del 3 marzo (Dagospia030322) ha ripreso l’indagine su Bellingcat, ma il suo pezzo contiene un’omissione e un’inesattezza. Utilizzando foto e video tratte pubblicate su internet, infatti, Strick è riuscito non solo a provare la vendita dei blindati italiani alla Russia (mostrando i documenti del Ministero dell’Economia italiano) ma anche che una parte i russi l’hanno consegnata alle milizie sciite dei fratelli Mohamed e Aiman Jaber accusati dall’UE di crimini contro la popolazione civile siriana come componenti della famigerata milizia Shabiha.

FIGURE 2-3: blindati Lince in Siria (Fonte: Bellingcat, cit.)

Embargo sì, ma con scappatoia

I documenti del MEF pubblicati su Bellingcat scandiscono i tempi delle transazioni con la Russia, ne segnalano alcune anomalie e, soprattutto, ne chiariscono le responsabilità politiche. La prima autorizzazione alla vendita e all’esportazione di mezzi militari viene concessa a Iveco (gruppo Fiat) nel 2009, quando agli Esteri si trova Franco Frattini. Frattini è il politico di cui a gennaio è bastato evocare il nome quale possibile candidato al Quirinale per provocare una raffica di accuse di essere “troppo filorusso”. La prima è una piccola commessa: due veicoli per un valore di 642.000 euro. Due anni dopo ancora Frattini autorizza la vendita di altri 10 Lince (2,75 milioni di euro) e viene siglato un nuovo contratto per 358 blindati, da consegnare disassemblati, per un valore di 96,6 milioni, credito che nel 2019 non risulta ancora onorato. 57 vengono consegnati nel 2012 (governo Monti), 126 nel 2013 (Monti o Letta) e 81 nel 2014 (Letta o Renzi), in totale, dunque, 264. Nel 2014 l’agenzia stampa russa Tass annuncia che la fornitura terminerà perché i mezzi italiani non convincono. A luglio, a seguito dell’occupazione russa della Crimea (febbraio 2014) scatta l’embargo europeo che vieta la vendita di armi (ma anche il semplice supporto finanziario o l’assistenza tecnica) alla Russia. Tuttavia nel 2015 il governo Renzi autorizza l’esportazione dei 94 mezzi mancanti (25 milioni di euro) e lo stesso anno ne vengono consegnati 83, pagati circa 22,5 milioni.

FIGURA 4: l’ultimo contingente di LMV Iveco (Fonte: Bellingcat, cit.)

Qui veniamo all’inesattezza. Nell’articolo sul Domani l’autrice scrive che l’embargo alla Russia “non aveva valore sanzionatorio, e l’Italia ha approfittato della falla legale per continuare a mandare armi”. A darci una spiegazione diversa è Pieter Wezeman, Senior Researcher presso il SIPRI (Stockholm International Peace Research Center), uno dei più autorevoli istituti di ricerca al mondo su guerre e commercio d’armi. A Wezeman abbiamo chiesto se ci sono stati comportamenti analoghi da parte di altri paesi e se è possibile che chi viola un embargo non venga sanzionato e la risposta è che “Ci sono stati pochi altri casi simili a quello italiano, in cui armi o componenti chiave sono stati esportati in Russia dopo il 2014. Ma quelle esportazioni non costituivano in sé una violazione dell’embargo UE. Le sanzioni europee alla Russia imposte nell’agosto 2014, infatti, vietano qualunque coinvolgimento nella fornitura alla Russia di armi e servizi militari o di articoli a utilizzo misto per scopi o utenti finali militari da parte dei produttori appartenenti a paesi UE o comunque provenienti dal loro territorio, a meno che i contratti e gli accordi relativi a tali forniture  non siano stati conclusi prima dell’1 agosto 2014”. Dunque il divieto europeo si applicava solo ai futuri contratti. Ma Wezeman fa un’ulteriore precisazione: “Faccia attenzione che il concetto di accordo è più ampio del concetto di contratto. Le esatte conseguenze giuridiche dell’inclusione degli ‘accordi’ nel provvedimento vanno oltre le mie competenze legali, ma certo ha creato più opportunità di fornire alla Russia alcuni articoli anche dopo il 2014”.

In altre parole – è la nostra interpretazione – l’UE ha modulato l’embargo in modo tale che non fosse impossibile aggirarlo. D’altra pare però – aggiunge il ricercatore – altri paesi si sono comportati diversamente: “Nel 2014 la Francia era vicina alla consegna delle prime due navi da assalto anfibio di classe Mistral, ma anche se l’embargo UE del 2014 consentiva di procedere, poiché la commessa risaliva a prima di agosto, la Francia ha cancellato l’accordo”. Analogamente “La Germania ha bloccato le consegne di materiali destinati a un avanzato centro di addestramento militare in Russia quasi ultimato e anche in questo caso la decisione è stata presa a livello nazionale, anche se l’embargo europeo formalmente non avrebbe comportato la cancellazione di quel contratto”. (Il testo integrale delle domande e delle risposte di Wezeman è pubblicato in appendice a questo articolo).

Aldilà dell’embargo europeo in Italia la legge 185/90 vieta la vendita di armi se contrasta con gli impegni internazionali dell’Italia e a paesi in guerra o che violano in modo grave le convenzioni internazionali sui diritti umani. Eppure se nel database del SIPRI consultiamo i Trend Indicator Values sulle esportazioni di armi italiane vediamo che dal 2011 al 2021 il dato ammonta a 1.184 milioni di euro verso l’Egitto, 282 verso Israele, 446 verso il Pakistan, 448 verso il Qatar, 227 verso l’Arabia Saudita, 1.076 verso la Turchia.  Dati che probabilmente rappresentano un’approssimazione per difetto, visto che, ad esempio, il database sottostima in modo significativo le esportazioni italiane verso la Russia (54 milioni di euro contro i circa 100 milioni dei soli blindati Iveco) e che, ci spiega Wezeman, il SIPRI dispone di dati relativi solo ai principali sistemi d’arma.

Recentemente, ad esempio, durante il World Defense Show, la “fiera degli armamenti” tenutasi a Ryad tra il 6 e il 9 marzo, la Beretta ha firmato un contratto per la fornitura di 3.500 pistole mitragliatrici PMX (in dotazione ai carabinieri) destinate alla Guardia reale dell’Arabia Saudita, il corpo d’élite responsabile della protezione della famiglia reale. Anche il capitalismo italiano evidentemente cerca di “trovare un equilibrio tra considerazioni economiche e politiche”.

Riconversione, il momento peggiore

In Italia il complesso militar-industriale ha caratteristiche che riflettono la struttura industriale del paese, con un piccolo numero di grandi imprese pubbliche e un ampio numero di PMI private, riunite nell’AIAD, l’associazione di categoria delle imprese dell’aerospazio, della difesa e della sicurezza, aderente a Confindustria e presieduta da Guido Crosetto, ex parlamentare piemontese di FdI, che oggi definisce “irritanti, assurdi e pretestuosi i ragionamenti di Orsini”.

Quanto pesi l’industria militare in termini economici e occupazionali lo chiediamo a Gianni Alioti, ex responsabile dell’Ufficio Internazionale della FIM, il sindacato dei metalmeccanici della CISL, da sempre impegnato sui temi della pace, del disarmo e della riconversione. “Oggi non abbiamo rapporti aggiornati sul numero di occupati nell’industria bellica. Il fatto che l’AIAD da vent’anni ripeta 50.000, significa che non è una cifra credibile. Però possiamo analizzare l’andamento dell’occupazione nel ramo militare di grandi aziende come Leonardo e Fincantieri e dedurne che c’è stato un calo. Il peso specifico dell’industria militare, però, va misurato più sul piano politico, della sua capacità di lobbying, che su quello strettamente economico.”

Per l’industria militare la crescita delle tensioni internazionali è un’opportunità di aumentare i profitti e il rischio, ora che la pandemia colpisce un tessuto sociale già logorato dalla recessione globale, è che anche molti lavoratori vi vedano un mezzo per migliorare le proprie condizioni di vita ed entrino in rotta di collisione con chi sostiene le ragioni della pace, magari teorizzando che le fabbriche di armi vanno chiuse. In passato l’Italia ha conosciuto esperienze di lavoratori che si sono battuti per la riconversione al civile. Tra le più note la lotta delle operaie della Valsella Meccanotecnica, una fabbrica di televisori nel distretto armiero del bresciano convertita alla produzione di mine antiuomo nei primi anni Ottanta (negli anni Novanta Saddam Hussein ne acquistò nove milioni di esemplari), che con ripetuti scioperi culminati nel blocco a oltranza della produzione a oltranza, alla fine riuscirono a trasformarsi in una fabbrica di motori elettrici per auto.

Tuttavia si tratta di episodi collocati in una fase storica segnata dalla fine della Guerra fredda. In generale, osserva Alioti, “I processi di riconversione dal militare al civile sono frutto di politiche di disarmo. Dal 1987 fino a metà degli anni Novanta c’è stata una riduzione di un terzo degli armamenti a livello mondiale. Ma dal 2000 al 2021 il trend si è invertito e la produzione di armi è raddoppiata, superando il picco stabilito durante la Guerra fredda” (in valori costanti). Significa che il periodo che attraversiamo, in cui i parlamenti decidono di accelerare ulteriormente la corsa agli armamenti, è in assoluto il peggiore per parlare di riconversione. Allo stesso tempo, dice Alioti, la battaglia va tenuta viva, se non altro per spiegare che la riconversione è possibile e togliere argomenti a chi giustifica il riarmo in nome del lavoro. “Nei primi mesi della pandemia Israele in 40 giorni ha riconvertito un’azienda missilistica in un produttore di respiratori per le terapie intensive” ricorda Alioti.

In una fase in cui, come ricordavamo all’inizio, una quota maggioritaria dell’opinione pubblica e grandi forze sociali sono schierate contro il riarmo e la belligeranza e una politica debole ne accusa i contraccolpi, ci troviamo di fronte a un caso emblematico di assenza di una direzione politica. Le forze per creare la coalizione sociale che il segretario della CGIL Landini lanciò quando era a  capo della FIOM oggi, a differenza di allora, ci sarebbero e avrebbero come piattaforma naturale il NO all’aumento delle spese militari e la richiesta di destinare quei 15 miliardi in più alla sanità, alla scuola, al trasporto pubblico, proprio quando il numero dei contagi ha ricominciato a crescere. Se non ora quando?


Le domande di PuntoCritico a Pieter Wezeman, Senior Researcher dello Stockholm International Peace Research Institute.

Cosa ci può dire delle esportazioni di armi dall’Unione Europa alla Federazione Russia?

Le ultime armi importanti esportate in Russia da uno Stato dell’UE sono state le autoblindo italiane LMV (in russo vengono chiamati Rys) consegnate dall’Italia nel 2014, di cui però sappiamo che un certo numero di esemplari sono stati consegnati anche nel 2015.

Nel 2014 la Francia era vicina alla consegna delle prime due navi da assalto anfibio di classe Mistral, ma anche se l’embargo UE del 2014 le avrebbe consentito di procedere, poiché la commessa risaliva a prima di agosto, la Francia ha cancellato l’accordo.

La Germania ha bloccato le consegne di materiali destinati a un avanzato centro di addestramento militare in Russia quasi ultimato e anche in questo caso la decisione è stata presa a livello nazionale, anche se l’embargo europeo formalmente non avrebbe comportato la cancellazione di quel contratto.

I nostri dati riguardano solo l’invio dei principali sistemi d’arma completi e di alcuni componenti chiave di tali sistemi. Perciò dal 2014 in poi le nostre statistiche non indicano esportazioni di armi da Stati-membri dell’Unione alla Russia, anche se alcuni componenti di armi importanti sono state consegnati anche dopo il 2014.

In conclusione, quindi, gli Stati dell’UE hanno intrattenuto relazioni di fornitura di armi con la Russia all’incirca dal 2010, ma vi hanno messo termine nel 2014, dopo di che c’è stato un rivolo di esportazioni dai paesi-membri alla Russia diminuite col passare degli anni.

2) E per quanto riguarda l’Ucraina?

Dal 2014 l’Ucraina ha combattuto i ribelli nella parte orientale del paese utilizzando le proprie scorte di armi, perlopiù di fabbricazione sovietica. Nel 2017-2021 le sue importazioni di armi importanti sono rimaste molto limitate e rappresentavano solo lo 0,1% delle importazioni globali di armi. L’invio di armi nel paese in generale ha avuto un significato più politico che militare ed è diventato più importante man mano che le tensioni tra Russia e Ucraina si sono approfondite alla fine del 2021. Nel 2017–2021 il trasferimento di armi all’Ucraina che probabilmente ha avuto l’impatto militare più consistente riguarda l’invio di 12 droni armati da parte della Turchia.

La Repubblica Ceca nel 2017-2021 è stata il maggior fornitore di armi importanti all’Ucraina, a cui ha inviato 87 blindati e 56 pezzi d’artiglieria, nel complesso il 41% delle importazioni di armi dell’Ucraina. Gli USA sono stati il secondo fornitore, attestandosi al 31%. Gli aiuti militari americani includevano 540 missili anticarro leggeri. Francia, Lituania, Polonia e Turchia sono stati gli unici altri fornitori di armi importanti.

Il modesto livello di trasferimenti di armi all’Ucraina nel 2017-2021 si spiega in parte con le ridotte risorse finanziarie a disposizione del paese e in parte col fatto che Kiev dispone di proprie capacità di produzione e di un ampio arsenale di armi importanti. Inoltre fino al febbraio del 2022 parecchi dei principali paesi esportatori di armi hanno ridotto l’esportazione di armi in Ucraina nel timore che questi potessero contribuire ad alimentare l’escalation del conflitto.

3) Un’inchiesta pubblicata su Bellingcat nel 2019 ha rivelato che nonostante l’embargo scattato nel 2014 l’Italia l’anno successivo ha fornito circa 80 blindati al Ministero della Difesa russo. In base alle vostre conoscenze  si è trattato di un caso isolato o di un fenomeno più generale? L’Italia potrebbe essere sanzionata?

Ci sono stati pochi altri casi simili a quello italiano, in cui armi o componenti chiave sono stati esportati in Russia dopo il 2014. Quelle esportazioni, però, non costituivano in sé una violazione dell’embargo UE. Le sanzioni europee alla Russia imposte nell’agosto 2014, infatti, vietano qualunque coinvolgimento nella fornitura alla Russia di armi e servizi militari o di articoli a utilizzo misto (dual use) per scopi o utenti finali militari da parte dei produttori appartenenti a paesi UE o comunque provenienti dal loro territorio, a meno che i contratti e gli accordi relativi a tali forniture  non siano stati conclusi prima dell’1 agosto 2014. Faccia attenzione, però,  che il concetto di accordo è più ampio del concetto di contratto. Le esatte conseguenze giuridiche dell’inclusione degli ‘accordi’ nel provvedimento vanno oltre le mie competenze legali, ma certo ha creato più opportunità di fornire alla Russia alcuni prodotti anche dopo il 2014.

4) In che modo i recenti sviluppi nella vendita di armi riflettono l’evoluzione geopolitica e come a sua volta la guerra in Ucraina potrebbe influire sul commercio di armi a livello globale nei prossimi anni?

L’incremento della domanda di armi da parte dell’Europa negli ultimi decenni si è tradotto in una crescita delle importazioni negli Stati europei, un fenomeno che per il SIPRI è strettamente legato alla percezione crescente della Russia come una minaccia, ma vi hanno contribuito anche altri fattori, come la situazione della sicurezza in Medio Oriente e nel Nord Africa. Questo trend presumibilmente andrà avanti, a meno che a mutare nuovamente la percezione diffusa non subentrino avvenimenti drammatici. La nostra è una previsione che si basa sui dati relativi alle attuali commesse per i prossimi anni. Ad esempio nel 2020-2021 sono stati ordinati 132 F-35 da Finlandia (64), Svizzera (36) e Polonia (32), mentre la Germania ha ordinato 5 aerei antisommergibile P-8A, mezzi che verranno tutti forniti dagli USA. Ma anche parecchi altri Stati hanno annunciato che intensificheranno i loro sforzi per ampliare la propria forza militare, anche procurandosi nuove armi. D’altra parte il processo di acquisizione comporta lunghe procedure di valutazione della capacità militare russa, poiché le precedenti valutazioni oggi, alla luce dell’attuale performance delle forze russe, possono essere riconsiderate; decisioni su quali armi serviranno per rispondere alla minaccia percepita; selezione e negoziazione dei contratti e, infine, produzione e consegna. La produzione, poi, potrebbe richiedere più tempo del solito, poiché l’industria globale e le supply chain sono ancora sotto stress per gli effetti della pandemia.

Mentre la spinta ad aumentare il processo di acquisizione di armi, anche attraverso l’importazione, in Europa è aumentata in modo sostanziale, resta alta in Medio Oriente, ad esempio per la percezione di minacce reciproche incrociate tra gli Stati nel Golfo, e in Asia, dove ci sono preoccupanti dinamiche di armamento legate alle tensioni tra la Cina e diversi Stati della regione.

In termini di sviluppi sul versante dell’offerta la guerra in Ucraina può avere effetti rilevanti sull’esportazione delle armi russe, che sono colpite dalle sanzioni contro la Russia e da una crescente pressione degli USA sugli altri paesi affinché non comprino armi da Mosca.

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