La nuova deflagrazione del conflitto israelo-palestinese si inscrive in un quadro internazionale segnato dall’emergere di più fronti del conflitto globale tra gli imperialismi occidentali e i loro antagonisti orientali, un risiko che vede protagonisti da una parte USA ed Europa, dall’altra Cina e Russia e, in mezzo, un pugno di potenze regionali – la Turchia, l’Iran, l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo, per citarne alcune – le cui mosse più che gli interessi strategici delle alleanze di cui fanno parte riflettono soprattutto i propri. Gli analisti hanno parlato diffusamente dei legami, potenziali o conclamati, tra l’attacco di Hamas e quei fronti, individuandovi aspetti diversi e in larga misura complementari: sabotaggio della politica di distensione israelo-saudita sotto l’egida USA; operazione del regime iraniano per distogliere dalla propria crisi; effetto della tipica tendenza delle potenze regionali a sfruttare i momenti di “distrazione” delle grandi potenze per regolare i propri conti.
Qui ne evidenziamo un altro: Israele è il maggior fornitore di armi delle forze armate azere e nelle settimane precedenti la recente annessione del Nagorno-Karabakh aerei cargo hanno fatto la spola tra una base militare nel sud di Israele e un campo di volo in quell’area (stavolta i devoti alla distinzione aggressore-aggredito, nonostante i 100.000 profughi di etnia armena, sono rimasti in religioso silenzio). “Non ci sono dubbi sulla nostra posizione in difesa dell’Azerbaijan”, ha detto di recente l’ex ambasciatore di Israele a Baku, “Abbiamo una partnership strategica per contenere l’Iran”, che a sua volta accusa gli azeri di ospitare la base da cui a gennaio è partito l’attacco contro il suo impianto militare a Isfahan (Sole24Ore051023). Insomma lo scontro tra l’Iran alleato della Russia, Israele alleata degli USA e le altre potenze medio-orientali passa anche dal Caspio.
Questione nazionale o questione di classe?
Il punto che ci interessa, tuttavia, è un altro. La guerra ha riaperto il dibattito politico e a contrapporsi alle manifestazioni di quasi unanime sostegno all’ “unica democrazia del Medio Oriente” non corrisponde, soprattutto a sinistra, una posizione sull’annosa questione israelo-palestinese che vada oltre la rituale ripetizione degli slogan sul diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Ovviamente non si tratta di negare che esista una questione nazionale palestinese, quanto di chiedersi se affrontare il problema in questa chiave sia utile a fornire una exit strategy praticabile ai palestinesi e una prospettiva politica fertile a chi sostiene la loro lotta. I palestinesi hanno tutto il diritto di rivendicare la fine dell’occupazione militare ai loro danni, che è la causa principale di ogni conflitto e di cui la responsabilità principale pesa sui governi israeliani (in Israele lo scrivono anche i progressisti di Haaretz) e di battersi anche con le armi per liberarsene. E la rappresaglia israeliana a Gaza è un atto di cieca ed ingiustificabile crudeltà ai loro danni. Detto questo, che affrontare la questione nei termini di una lotta di liberazione nazionale, magari evocando lo slogan dei “due popoli due Stati”, sia la soluzione, è un altro paio di maniche.
Una sinistra schierata dalla parte dei lavoratori in ogni conflitto politico e militare dovrebbe cogliere, prima di tutto, un conflitto tra classi dominanti e classi oppresse e il conflitto israelo-plaestinese non dovrebbe sfuggire a questa regola aurea. Invece anche a sinistra il tema dell’oppressione sociale è stato quasi completamente oscurato dal tema dell’oppressione nazionale e, di conseguenza, si è avallato prima il mito dell’OLP come espressione del nazionalismo progressista borghese in grado di traghettare l’intera società palestinese verso un orizzonte di libertà e democrazia. Poi, sgretolatosi miseramente quel mito, la sinistra si è divisa tra chi rimpiange Arafat e chi sdogana Hamas, considerato l’unico argine possibile allo strapotere di Israele. Del resto c’è chi fa lo stesso ragionamento con mullah iraniani, golpisti africani e satrapie orientali, nascondendosi dietro il “sono oggettivamente antimperialisti”.
La realtà è che l’ANP di Abu Mazen e la leadership islamica di Gaza sono espressione di settori differenti della borghesia palestinese – da una parte finanzieri e businessmen con interessi nelle grandi capitali arabe e nei mercati finanziari globali, dall’altra una piccola borghesia la cui sopravvivenza è più legata ai territori in cui vive il popolo palestinese. E che le loro divergenze non riflettono un diverso grado di devozione alla causa, ma soltanto il diverso impatto della politica israeliana sui loro affari. In ogni caso ambo le fazioni non hanno mai esitato a utilizzare il loro popolo come massa di manovra per colpire Israele e negoziare con la sua leadership. Insomma nulla di simile, sia per le loro caratteristiche distintive sia per i tempi, con le borghesie nazionaliste progressive medio-orientali degli anni Sessanta.
La stessa dialettica dello scontro-negoziato con Israele è regolata da interessi materiali che possono persino consigliare di deporre le armi e impugnare il registratore di cassa. L’esempio più clamoroso è quello della gestione comune delle case da gioco. La Torah e il Corano vietano il gioco d’azzardo. Perciò, fino alla seconda Intifada, quando le forze di sicurezza di Tel Aviv vietarono loro l’ingresso in Cisgiordania, molti israeliani per aggirare il divieto si recavano al Casinò Oasis a Gerico, gestito da esponenti di Al Fatah insieme a imprenditori israeliani. Così, nei giorni in cui i giovani palestinesi si scontravano nelle strade coi soldati israeliani, manager palestinesi e israeliani si incontravano per esaminare con preoccupazione il futuro dei propri affari, due milioni di dollari al giorno. Una scena che probabilmente si ripete in queste ore, visto che l’anno scorso ANP e autorità israeliane avevano iniziato a discutere di una riapertura del casinò. Se le fazioni islamiche additano quella vicenda come prova della corruzione che regna nell’ANP, in realtà essa più che una “questione morale” riflette una questione di classe.
Per parte sua Hamas è nata, analogamente a Hezbollah in Libano, negli anni Ottanta grazie al sostegno dei vertici di Israele, che nelle organizzazioni islamiche all’epoca vedevano un mezzo per dividere il fronte avversario e, in particolare per indebolire le correnti palestinesi laiche e più legate all’URSS. Una strategia che con la fine della Guerra Fredda, la crisi dell’OLP e l’ascesa di Hamas a metà degli anni Duemila è mutata sicuramente nella forma – Israele non sostiene più direttamente la leadership islamista – ma non del tutto nella sostanza: per le classi dominanti di Israele, infatti, Hamas è il miglior nemico possibile, quello che fornisce loro il miglior alibi per tenere il paese in uno stato di guerra permanente (e lo stesso dicasi per alcune potenze straniere, Russia e Iran in testa). Oggi la traballante cricca di Netanyahu, che fino a pochi mesi fa si scontrava col potere giudiziario, con le piazze e l’ostilità aperta persino di alcuni ambienti militari, ottiene la disponibilità (pur insidiosa) dell’opposizione a sostenere un governo di unità nazionale. Insomma per il contestato primo ministro la guerra è diventata un’assicurazione sulla vita (politica).
L’alternativa internazionalista
Per questa ragione l’azione intrapresa da Hamas il 7 ottobre è criminale non solo e tanto per ragioni umanitarie, ma perché colpisce una popolazione israeliana e, potenzialmente, anche arabo-israeliana, vittima essa stessa del conflitto e con essa l’unico vero potenziale alleato per i palestinesi oppressi: non i paesi arabi, non le “democrazie occidentali”, né le impotenti Nazioni Unite, ma i proletari israeliani e arabo-israeliani che vivono dall’altra parte del filo spinato, oppressi, certo in misura inferiore, ma dagli stessi oppressori e dunque interessati anche loro a sbarazzarsene.
Se il braccio di ferro sulla riforma della giustizia, pur coinvolgendo ampie fasce della popolazione e la stessa centrale sindacale Histadrut, è stato in sostanza uno scontro di potere tra le varie fazioni della borghesia israeliana, per il controllo su uno Stato fondato sui fragili equilibri tra le sue diverse anime, in esso è emersa in qualche modo anche l’insofferenza sociale verso un regime che tiene un quinto della popolazione sotto la soglia di povertà, alimenta discriminazioni etniche ed economiche (il salario di un arabo-israeliano è il 58% di quello di un ebreo-israeliano) e in questi anni ha fatto pagare il costo di ogni crisi in primo luogo ai lavoratori salariati.
Premesso che non esistono soluzioni facili a noi sembra che guardare alle contraddizioni interne alla società israeliana e puntare sull’unità tra le vere vittime del conflitto, da una parte e dall’altra del muro, sia un’ipotesi più plausibile che affidarsi alle iniziative di una classe dirigente screditata e in larga misura dipendente da regimi esteri abituati a usare cinicamente i palestinesi a seconda delle proprie convenienze. Più plausibile, aggiungiamo, dell’illusione di poter creare uno Stato autonomo in un mondo in cui, a differenza di 40 anni fa, qualunque prospettiva di sviluppo indipendente di un paese negli interstizi tra le sfere di influenza degli imperialismi, ormai ridotte a zero, è ormai pura utopia. Vale per l’Ucraina, pur dotata di ingenti risorse economiche, di un’industria e di un esercito relativamente moderni, di una storia di tutto rispetto e nondimeno dilaniata da una guerra per decidere a quale imperialismo assoggettarsi. Figuriamoci per una “Palestina indipendente” ma povera, priva di risorse e situata al confine di uno Stato di Israele, ricco, armato fino ai denti e dominato dalle cricche che oggi sostengono come un sol uomo il massacro della popolazione di Gaza, la chiusura dei varchi per impedirne la fuga e la sospensione delle forniture di acqua e di gas.