POLITICA Ancora sulla questione militare alcune riflessioni di Piero Acquilino approfondiscono l’articolo pubblicato sull’ultima newsletter, chiarendone alcuni aspetti, ad esempio il ruolo delle forze armate in un paese come l’Italia, anche in tempo di pace, attraverso la loro capacità di condizionare alcuni aspetti fondamentali della vita civile – politica, economia, educazione. LETTURE Su quest’ultimo aspetto due volumi, “Educati alla guerra” di Gianluca Gabrielli e “La scuola va alla guerra” di Antonio Mazzeo, ci aiutano a inquadrare il fenomeno anche in termini storici e a cogliere alcune significative analogie tra passato e presente.
Il ritorno della questione militare
Alcuni elementi di riflessione.
PIERO ACQUILINO, 17 MARZO 2024
La questione militare e lo Stato
Marco Veruggio, nella scorsa newsletter di PuntoCritico, ci ha ricordato l’importanza di quella che nella storia del movimento operaio è stata definita la “questione militare”.
Un tema che negli ultimi decenni è completamente scomparso dall’orizzonte politico delle sinistre di lotta e/o di governo, ridotte oggi, di fronte alle guerre presenti e future a barcamenarsi nel dilemma tra appoggiare – criticamente, ça va sans dire! – l’imperialismo di casa propria o aggrapparsi piagnucolando alla sottana del papa.
Ma l’assenza di un tema, soprattutto quando è in assoluta controtendenza con l’evolversi degli avvenimenti, è un elemento più significativo della presenza, perché è rivelatrice di qualcosa di più ampio e profondo, riflesso della sconfitta sociale e della conseguente involuzione politica della sinistra in tutte le sue gradazioni. Questo elemento è il rapporto con lo Stato borghese.
Perché la questione militare è un tassello – fondamentale – della concezione marxista dello Stato e Veruggio nel suo intervento lo spiega chiaramente. Come la guerra non è un accidente bensì un attributo ineliminabile del capitalismo, il monopolio della violenza – potenziale o attiva – è l’essenza stessa dello Stato in generale e di quello capitalista nella realtà che stiamo vivendo.
Rimuovere la critica materialista allo Stato significa ridurre il marxismo a uno scatolone di cianfrusaglie nel quale miti eterogenei più o meno ammaccati giacciono nel disordine, magari rassicuranti ma inutili per interpretare il presente. Non solo: significa adottare, più o meno consciamente, il punto di vista della propaganda borghese che ricostruisce in continuazione il passato, applicando uno schema rozzo ma efficace (buoni contro cattivi) in funzione delle sue esigenze immediate.
La guerra nel giardino di casa
Queste esigenze sono oggi centrate in buona parte sulla preparazione alla guerra. Perché anche la borghesia in questi decenni aveva rimosso la questione militare, scommettendo, come nel caso della Germania, che la sola potenza economica potesse fare a meno di un’adeguata potenza militare e confidando sull’inarrivabile apparato militare degli Stati Uniti in grado di inviare prontamente il 7° Cavalleggeri per salvare dagli indiani qualsiasi fattoria assediata in ogni contrada del mondo. Ma a Washington oggi hanno altre preoccupazioni – interne ed esterne – e l’invasione russa dell’Ucraina è stata per tutti un brusco risveglio che ha mandato nel panico le cancellerie di tutta Europa. Ai confini orientali e a poche centinaia di chilometri dalle capitali europee è scoppiata una guerra che, per una delle tante ironie della storia, mentre si combatte con mezzi modernissimi, ha due caratteristiche in comune con quelle della prima metà del Novecento: l’enorme distruzione di vite umane e di mezzi materiali; due costi che nessun paese occidentale è oggi in grado di pagare.
È quindi il momento di rimettere la questione militare all’ordine del giorno, affrontando il tema della guerra, ma allargando anche il campo ai ruoli che essa ricopre nella società in tempo di pace: dall’economia, all’educazione, all’ideologia e, in generale, nel determinare il rapporto di forza tra le classi. Un terreno d’indagine enorme, rispetto al quale posso solo accennare alcuni filoni che mi sembrano interessanti.
Il ruolo “pedagogico-repressivo” delle forze armate
In primo luogo, il ruolo delle forze armate, in tempo di pace, nel fornire allo Stato una legittimazione sociale che trascende il mero utilizzo della violenza. In genere gli studi storici si focalizzano sulle vicende degli eserciti in azione, lasciando in ombra la loro funzione, nel formare l’identità nazionale, sia attraverso l’educazione coatta dei coscritti, raccogliendo il testimone dalla scuola, sia attraverso la produzione continua di un immaginario collettivo di miti e di riti identitari. Su questo tema, la storia italiana è un esempio da manuale e la frase attribuita a Massimo d’Azeglio “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani” risuonò, nella seconda metà dell’Ottocento, come un’indicazione strategica per lo Stato italiano alla fine del processo d’unificazione nazionale. In un paese essenzialmente agricolo, nel quale la lingua italiana era parlata da una piccola minoranza colta della popolazione, il servizio di leva era determinante per “fare gli italiani” (non le italiane, ma le donne erano relegate, anche legalmente, in una condizione semi-servile). Il servizio di leva faceva uscire il coscritto dal piccolo mondo del villaggio e gli forniva l’accesso ai rudimenti della lingua nazionale e alle norme del vivere civile, ma confermava e rafforzava anche le gerarchie sociali, sia quelle arcaiche del mondo agricolo, sia quelle moderne imposte dalla fabbrica e dalla borghesia in ascesa. Inoltre, il giovane contadino, trasformato in soldato e mandato a presidiare territori a lui sconosciuti di cui non comprendeva nemmeno la lingua, diventava un elemento utilizzabile per reprimere le prime grandi lotte operaie: la Boje! del 1882; i Fasci siciliani del 1889; i moti di Milano del 1898… Nonostante due guerre mondiali, le avventure coloniali e i cambi di regime, le forze armate italiane svolsero queste funzioni in pratica senza soluzione di continuità fino a ridosso della sospensione della leva obbligatoria. Basti pensare che ancora per la rivolta di Reggio Calabria (1970) o per il “movimento del ‘77” a Bologna, reparti dell’esercito furono mobilitati in servizio di ordine pubblico a fianco di Polizia e Carabinieri.
E quello economico-politico
Sempre in tempo di pace, un altro elemento che fa delle forze armate uno stabile pilastro dello Stato borghese è il loro ruolo economico-politico. La spesa militare, che copre un enorme ventaglio di tipologie diverse, dagli armamenti, alle divise e all’alimentazione. È un mercato particolare, con numerosi fornitori ma con un unico cliente, lo Stato, che decide i propri acquisti non solo in base a considerazioni tecniche ed economiche, ma anche politiche, sia nazionali, sia internazionali. Ciò determina la formazione in ogni nazione di un complesso militare-industriale, composto dai vertici delle forze armate e da quelli dell’industria degli armamenti, in grado di influenzare le scelte del governo. Potere rafforzato dalla funzione anticiclica della spesa militare che, nei momenti di crisi, tende a restare stabile se non a crescere e ha quindi un effetto stabilizzante sull’economia, sia pure a scapito della spesa pubblica. Infine l’apparato militare e poliziesco rappresenta pur sempre un settore del pubblico impiego le cui condizioni di vita, come quelle di tutto il comparto, sono determinate da scelte politiche, contrattabili in cambio di voti; altro elemento che rafforza il suo ruolo di sostegno allo Stato e, in questo, al governo in carica.
Tutto ciò non vale solo per l’Italia, per gli altri paesi occidentali e per le grandi potenze come Russia e Cina. Anzi, l’apparato militare-industriale in molte delle potenze regionali emergenti (Egitto, Pakistan, Iran…) è il nucleo duro dell’economia nazionale, in grado di controllarne il resto, a partire dalle fonti energetiche, e di esprimere direttamente il potere politico: il generale egiziano Al Sisi non è al vertice solo perché ha organizzato un golpe, sostenuto dai “democratici” di tutto il mondo contro il governo, regolarmente eletto dei Fratelli musulmani, ma soprattutto perché rappresenta direttamente un apparato militare che controlla una parte consistente dell’economia egiziana.
Militari e civili
L’attacco di Hamas contro Israele che ha scatenato la guerra nella striscia di Gaza ha introdotto un altro elemento sul quale val la pena di riflettere: il rapporto tra civile e militare nei conflitti. Veruggio nel suo intervento si è soffermato sulla constatazione che nelle guerre contemporanee il confine tra civile e militare diventa sempre più labile sino a quasi scomparire. Ciò è vero non solo se si analizzano gli attori del conflitto, ma anche se si sposta lo sguardo sulle vittime. Le centinaia di civili vittime dell’incursione di Hamas o le oltre 30.000 – tra le quali decine di migliaia di bambini – sepolte dalle bombe israeliane a Gaza non sono “effetti collaterali” spiacevoli ma inevitabili di uno scontro tra eserciti, ma uno dei veri obiettivi del conflitto perché se lo scontro è legittimato dall’appartenenza a popoli nemici, questi ultimi diventano un obiettivo da distruggere o, nella migliore delle ipotesi, da scacciare. La pulizia etnica è un metodo efficace per definire confini che la storia ha lasciato indeterminati. È una considerazione che vale anche per la guerra in Ucraina anche se il numero di vittime civili nei due campi non è paragonabile a quello di Gaza. Tuttavia è innegabile che i bombardamenti ucraini nel Donbass e russi sulle città ucraine, motivati con da entrambe la parti con il perseguimento di obiettivi militari, abbiano anche lo scopo di demoralizzare la popolazione ed è significativo che in due anni di conflitto in una terra solcata da oleodotti non si abbia ancora notizia di una bomba che, anche per errore, abbia colpito un tubo che trasporta il gas. Non saranno bombe particolarmente intelligenti, ma a riconoscere gli interessi del capitale hanno imparato subito.
Le cause della guerra
Al di là della cortina fumogena della propaganda, che è anch’essa un’arma alla pari di quelle che sparano sul campo di battaglia, le vere cause della guerra vanno cercate nello scontro di interessi economici. Uno scontro che può anche essere indiretto perché anche il controllo di una zona priva di risorse può essere vitale per garantire l’accesso, il controllo o il semplice trasporto delle risorse di un’altra zona. oppure per determinare un rapporto di forze più favorevole a livello globale.
La guerra è anche un agente di rapido mutamento degli equilibri interni ai paesi che ne sono coinvolti. Uno dei compiti dello Stato borghese è quello di garantire l’equilibrio tra le varie frazioni della borghesia al suo interno, privilegiando l’interesse generale nei confronti di quelli particolari. Ma l’inizio delle ostilità mette in crisi questo equilibrio mutando i rapporti di forza interni sia tra le classi, sia all’interno di esse. Il complesso militare-industriale tenderà a diventare egemone rispetto alle altre frazioni borghesi non interessate o addirittura danneggiate dal conflitto, imponendo la priorità dei propri interessi, mentre il proletariato sarà costretto a farsi carico di gran parte dei costi umani e materiali, vedendo erose le proprie file, le proprie risorse e le proprie conquiste. Gli scioperi diventeranno impossibili, opporsi alla guerra diventerà un reato e su tutti i lavoratori e gli studenti in età di leva incomberà la minaccia di essere inviati a morire al fronte. Non è un’ipotesi, è quello che è successo in due anni di guerra in Russia e in Ucraina.
Inoltre, sul piano politico, i governi tenderanno a condurre la guerra sulla base del consenso che possono ottenere all’interno del paese, sacrificando magari migliaia di soldati per ottenere qualche punto in più nei sondaggi elettorali. Già nel 1971, la pubblicazione negli USA dei Pentagon Papers rivelò come le amministrazioni che si erano succedute al potere avessero rinviato la conclusione di una guerra che sapevano essere perduta per timore delle ricadute sugli equilibri politici interni, sacrificando così coscientemente e – per loro – inutilmente migliaia di giovani soldati. E, per tornare ai giorni nostri, solo uno sprovveduto può non cogliere nelle dichiarazioni di sostegno all’Ucraina dei dirigenti dell’UE e dei governi nazionali, la predominante preoccupazione per l’andamento delle prossime elezioni europee più che la fiducia nei mirabolanti progetti di nuove offensive vittoriose di Zelensky per la riconquista della Crimea. Se ci dev’essere un compromesso che metta fine alla guerra sarà a urne chiuse e se nel frattempo moriranno decine di migliaia di giovani russi e ucraini, pazienza…
E dopo?
Un’ultima considerazione riguarda il dopo, perché le guerre non finiscono al momento in cui tacciono le armi. Al di là delle perdite umane, delle distruzioni materiali, delle migrazioni forzate dei profughi rimangono a lungo mutamenti profondi del tessuto sociale e ferite difficilmente rimarginabili. Per chi vi ha partecipato la guerra è un’esperienza estrema e collettiva che segna l’intera esistenza. Ce lo insegna, con innumerevoli esempi, tutta la storia del Novecento. Si parte per il fronte operai, impiegati, insegnanti o professionisti e si torna soldati: un’identità nella quale la solidarietà di gruppo per i “fratelli in armi” spesso prevale su quella sociale di appartenenza, assuefatta alla violenza fisica e all’odio contro il nemico. Caratteristiche che possono diventare risorse se incanalate in un processo rivoluzionario di cambiamento sociale, ma che possono diventare anche un’arma mortale nelle mani del nemico di classe.
Le vicende belliche nel loro corso causano anche profonde fratture nel corpo sociale perché se ogni guerra oggi è totale perché coinvolge i civili, ne consegue che ogni guerra ha al suo interno elementi di guerra civile che rimarranno anche dopo la fine delle ostilità.
Per tutti questi motivi – e per tanti altri – che occorre ricominciare a occuparsi della questione militare. Il tempo stringe.
LETTURE La scuola-caserma ieri e oggi
A proposito del ruolo pedagogico-repressivo delle forze-armate citato nell’articolo precedente, per avere una visione più competa di questo fenomeno nella storia italiana è consigliabile leggere due saggi. Si tratta di La scuola va alla guerra. Inchiesta sulla militarizzazione dell’istruzione in Italia, del giornalista e insegnante Antonio Mazzeo (Manifesto Libri, 2024) e di Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento, di Gianluca Gabrielli (Ombre Corte, 2016), che introduce così l’argomento:
Dopo il 1861, giunta a parziale compimento l’unificazione nazionale, il ceto dirigente del neonato Regno d’Italia si pose il problema di “fare gli italiani”, cioè di integrare la popolazione nelle istituzioni del nuovo Stato, di costruire un spirito d’identità nazionale e di diffonderne la coscienza tra la popolazione.
Nell’Ottocento e nel Novecento questo processo di “nazionalizzazione” o nation building fu una delle priorità delle classi dominanti. Insomma, ciò che oggi appare agli occhi di molti come un dato naturale, la nazione, in realtà è un costrutto sociale, frutto dello sforzo lungo e concentrato di una parte delle società europee.
Gabrielli documenta l’utilizzo delle guerre italiane del Novecento – Libia, Prima guerra mondiale, Etiopia e Seconda guerra mondiale – come laboratorio sperimentale in cui plasmare un’identità nazionale confacente alle esigenze dello Stato, di cui la figura del cittadino-soldato è fondamentale elemento costitutivo. Un processo di cui il fascismo rappresenta una fase di accelerazione in un contesto, tuttavia, di sostanziale continuità col passato e in cui la scuola è luogo di primaria importanza. L’educazione fisica in Francia e, sull’esempio francese, anche in Italia, ad esempio, viene introdotta nel 1870, dopo la sconfitta di Sedan da parte dell’esercito prussiano e il culto del fisico in epoca fascista si innesterà, dunque, su una concezione preesistente della scuola come preparazione al campo di battaglia. Così come ai primi del Novecento la nascita dello scoutismo (1907) per opera di un ufficiale britannico, Baden Powell, idea maturata durante la guerra anglo-boera, rappresenta l’antecedente liberale dell’irreggimentazione della gioventù da parte del fascismo e del nazismo.
In questo quadro la battaglia per l’egemonia dell’ideologia imperialista tra gli insegnanti rappresenta un tassello centrale; si scontra, durante la Prima guerra mondiale e la guerra in Libia, con la resistenza degli insegnanti socialisti; ma, anche dopo il 1922, con alcuni pur cauti tentativi di dipingere la guerra come una tragedia, contrastando la narrazione propagandistica del balilla che scappa di casa per raggiungere il fronte e unirsi ai soldati italiani, all’epoca veicolata anche dal Corriere dei Piccoli. Al punto che il fascismo a un certo punto decide di inserire i militari a pieno titolo nel corpo docente per rafforzare la sua presa sulla scuola.
Eppure, osserva Gabrielli, anche dopo il 1945 a scuola, così come nel resto della società, una vera e propria rottura col fascismo stenta a manifestarsi, l’insegnamento della storia si interrompe con la Prima guerra mondiale e nel 1948 il sussidiario della quinta classe il Ventennio viene liquidato così:
Dal 1918 a oggi, son passati molti anni, ragazzo mio.
Da allora, l’Italia nostra ha visto tante altre vicende, sulla quali la storia non ha ancora pronunciato il suo giudizio. Tristissime sono state quelle che, forse, hai visto anche tu. Una pace ingiusta ci è stata imposta, contro cui si è rivolta la sdegnosa coscienza del nostro popolo. Ma non tutto è perduto, se, in un mondo pacificato, potremo far ascoltare la voce del nostro diritto.
È su questa base che, a ottant’anni di distanza e dopo un trentennio di illusioni sull’ingresso dell’umanità in un’era di pace, nel libro di Mazzeo ritroviamo una scuola in cui alcune delle pratiche descritte da Gabrielli, ad esempio l’invio di letterine da parte degli alunni delle scuole ai militari italiani impegnati nelle missioni all’estero, vengono riprese. In una cornice ideologica, tuttavia, segnata da un’ipocrisia di fondo: mentre la militarizzazione della gioventù nella prima metà del Novecento avviene nel segno di una “superiorità italiana” rivendicata esplicitamente, oggi la forza militare viene presentata come uno strumento di pace. Scrive Mazzeo:
“Sono davvero felice di essere qui; per me è la prima volta che ho la possibilità di di visitare un quartier generale della Nato ed avere l’opportunità di comprendere come essa lavori per assicurare la pace e la stabilità in ogni parte del mondo”, avrebbe dichiarato una studentessa del liceo “De Bottis” di Torre del Greco. “Grazie per la visita, perché ho potuto capire che la Nato non opera per la guerra, ma che al contrario ha la missione di intervenire in accordo con altri paesi per mantenere la Pace e la Sicurezza”, il pensiero di un tredicenne della scuola “Don Vitale” di Lago Patria.
Una narrazione che talora sconfina nel ridicolo, come in un resoconto dell’IISS “Da Vinci” di Martina Franca sui tirocini svolti dagli alunni presso il 36° stormo dell’aviazione militare, in cui il cacciabombardiere Eurofighter Typhoon viene descritto così:
Il suo compito, nonostante l’artiglieria che trasporta suggerisca il contrario, non è offensivo, bensì difensivo, infatti l’unico momento in cui utilizza armi è solo in presenza si un attacco nei suoi confronti.
Eppure della militarizzazione della scuola non ci pare esista una percezione diffusa e, soprattutto, non vediamo tentativi concreti di intervenire tra gli studenti e i lavoratori della scuola per mettervi un argine. Un recente appello promosso da ANPI e FLC CGIL, citato in un articolo sul Fatto e rilanciato su OrizzonteScuola il 13 marzo potrebbe essere un primo segnale interessante.