“Iran-Israele, un balletto pericoloso”
Intervista ad Alì Ghaderi, Fedayn del Popolo iraniano
L’allargamento della guerra a Gaza al Libano e gli attacchi israeliani a Siria e Iran hanno reso manifesto un conflitto regionale con motivazioni ben più ampie di quelle tradizionali del conflitto israelo-palestinese. Quello che segue è un colloquio con Alì Ghaderi, dirigente dei Fedayn del Popolo, organizzazione che fa parte del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, e deriva dalla trascrizione di una riunione-intervista collettiva tra lui, la redazione di PuntoCritico e il collettivo ControCorrente.
Per il regime iraniano che tipo di situazione è quella in cui su di lui e sui suoi proxy si sono abbattuti i colpi di Netanyahu?
Lo scontro con Israele per il regime iraniano arriva in un momento di debolezza. All’epoca di Khomeini c’era un consenso sociale che oggi non c’è più. Durante la guerra con l’Iraq le madri accompagnavano i figli minori a farsi esplodere sulle mine per ricevere la chiave di plastica che il regime dava loro per “accedere al paradiso”. Oggi non è più così. Khamenei esercita un controllo sull’economia, ma non sulla società iraniana. Oggi persino i pensionati scendono in piazza per protestare contro la violazione delle pur deboli tutele previste dalla legge sulle pensioni e nelle loro manifestazioni dicono apertamente che non vogliono la guerra. E, anche se la repressione è forte, le manifestazioni continuano. Sono cresciuti sindacati indipendenti e nuove leadership e un particolare per nulla scontato è che tutte le personalità politiche dell’opposizione in Iran scindono la causa palestinese in sé dall’utilizzo strumentale che ne fa il governo iraniano. Questa è anche una delle ragioni per cui Khamenei col passar del tempo è stato costretto ad appoggiarsi sempre più ai pasdaràn, che ormai non sono più solo un potere militare, ma anche i gestori dell’apparato militar-industriale, l’unica industria manifatturiera iraniana sviluppata e in grado di esportare.
In che modo questa debolezza si riflette sulla gestione dello scontro con Israele?
La situazione che ho descritto spiega le ragioni del “balletto” a cui stiamo assistendo. Come forze della Resistenza pensiamo che questo balletto, se non sfugge di mano, funga da calmiere dei problemi interni sia per Netanyahu sia per il governo iraniano. E allo stesso tempo è anche il veicolo di un inedito riconoscimento reciproco tra le parti. Il fatto che il governo americano avvisi il governo iraniano che ci sarà un attacco da parte di Israele significa che riconosce il governo iraniano come controparte politica e militare e lo stesso accade quando ad avvisare è Tehran. Nella politica regionale è una novità. Poi, certo, la situazione può sfuggire di mano, ma per ora la realtà è questa, anche perché il pallino non è nelle mani di Tehran né di Tel Aviv, ma degli Stati Uniti, della Russia e della Cina. In Iran, sia tra i pasdaràn sia tra i “moderati”, sono molti i filorussi e vanno dicendo che Putin non tollererà una guerra aperta contro l’Iran. D’altra parte Russia e Cina usano i BRICS per tenere l’Iran sempre più legata a se stessi ma a proprio esclusivo beneficio: lo dimostrano i contratti devastanti che hanno firmato con l’Iran, devastanti per l’Iran intendo.
A proposito quali sono i principali partner commerciali dell’Iran e che effetto hanno le sanzioni sui suoi scambi?
L’Iran vende acqua ai Paesi del Golfo come vende petrolio alla Cina e gas alla Russia. Ha un mercato vastissimo, che oltre a Russia alla Cina include tutti i paesi satelliti delle due potenze. L’embargo viene aggirato così come succedeva negli anni ‘80 e a fare le triangolazioni per eluderlo sono i paesi europei, basti pensare all’atteggiamento che da sempre hanno i governi italiani, per cui l’Iran è sempre stato un partner commerciale di primo piano. Insomma l’Iran fa affari a occidente e a oriente, ma anche nell’ipotesi, a mio avviso improbabile, che tutti i contratti con l’Occidente vengano rescissi, i mercati orientali all’Iran bastano sia in termini di importazioni che di esportazioni.
Tornando alla guerra tu quindi vedi l’ipotesi di un’escalation mondiale come improbabile?
Io penso che una nuova guerra mondiale può scoppiare per altre ragioni, non per volontà di Israele o dell’Iran, che non sono in condizione di sopportare il peso di una guerra a tempo indeterminato. Sappiamo benissimo quanti problemi ha già Israele oggi – dall’immigrazione interna a causa dei bombardamenti di Hezbollah nel nord all’impatto della mobilitazione dei riservisti sull’apparato produttivo di un paese che ha solo 10 milioni di abitanti. Lo stesso vale per l’Iran. I soldi con cui finanzia Hezbollah e gli altri alleati ormai non sono più un investimento sufficientemente redditizio, perciò anche nel regime filtra l’idea che non ci sono soldi né tecnologie sufficienti per fare una guerra vera e propria. Anche le tecnologie russe finora o non le hanno ricevute o non sono stati autorizzati a usarle.
Qual è l’alternativa per Tehran?
Il regime iraniano ha sempre creato crisi, è vissuto di crisi e vuole continuare a farlo, ma la discussione interna oggi è come spostare la geografia delle crisi, fomentando focolai di tensione a basso costo – sia in termini finanziari che di costi politici interni – in paesi come Turchia, Kazakhstan, Tajikistan, che vendono petrolio o hanno scambi commerciali con Israele. Perciò non escludo che arrivi un’altra risposta militare dall’Iran, ma sarà comunque una risposta limitata. E anche per quanto riguarda Israele è vero che girano mappe della “Grande Israele”, ma la Siria non può essere toccata più di tanto perché ci sono i russi, la Giordania è sotto la protezione degli USA e così via. Insomma è una situazione liquida, in cui è difficile fare previsioni, ma eventi eclatanti per ora mi sembrano improbabili.
E dal punto di vista occidentale?
Io penso che si sia aperto un processo che punta ad addomesticare l’Iran, come è successo con la Corea del nord, e il riconoscimento di cui parlavo potrebbe anche rientrare in questa logica. D’altra parte in Iran non c’è una forza organizzata che può cambiare le cose, però c’è una forza sociale, che ormai vediamo da anni nelle piazze, e loro lo sanno. I numerosi avvicendamenti in corso nelle istituzioni e delle forze armate a mio avviso riflettono i tentativi del regime di prepararsi a una crisi interna. La vera minaccia per loro è quella, non Netanyahu.
Che impatto potrebbe avere l’elezione di Trump?
Le amministrazioni Obama hanno dato una mano al governo iraniano, ad esempio con l’accordo sul nucleare, mentre Trump ha fatto fuori Soleimani, il loro asso nella manica in Siria. Però penso che con Trump, ma anche se avesse vinto la Harris, una guerra contro l’Iran non sia all’ordine del giorno, Così come escluderei anche il regime change, per almeno due ragioni, cioè che non hanno forze sufficienti per realizzarlo e neppure un’alternativa al regime. La Resistenza iraniana in fondo per l’Amministrazione americana non è affidabile, perché non garantiamo ciò che vorrebbero loro. Certo Trump probabilmente ridurrà l’impegno bellico americano, non per ragioni ideologiche, ma perché ormai hanno ottenuto ciò che volevano – mettere in ginocchio l’Europa sulla questione energetica – e perché i costi stanno diventando insostenibili. Ma credo che anche la Harris avrebbe fatto la stessa cosa. È la Cina, semmai, che ha interesse a prolungare questa situazione, perché mentre gli altri si indebitano Pechino si sta impadronendo del mondo.
Il movimento nato da Mahsa Amini continua o vive una fase di riflusso?
La mobilitazione continua, in alcune province in modo più esplicito, in altre invece più sotto traccia, ma la cosa importante è che ha prodotto dei leader, una parte dei quali oggi è in carcere, ma che si stanno radicalizzando, non disdegnano le tradizionali organizzazioni della Resistenza iraniana, come noi e i mujaheddin, ed esprimono sempre più apertamente posizioni inconciliabili con quelle dei cosiddetti moderati alla Moussavi. Dei moderati di fatto non è rimasto nulla.
Potrebbe essere il tema della successione di Khamenei a far saltare i fragili equilibri su cui si fonda il regime?
Questo è uno dei problemi e infatti cercano di non parlarne, come se Khamenei fosse immortale. Quello che anche per i pasdaràn era un possibile candidato alla successione, Raisi, è morto. La candidatura del figlio di Khamenei è invisa ai pasdaràn, che piuttosto preferirebbero sostituire la figura della Guida Suprema con un organismo collettivo. In questo quadro Khamenei si muove dando l’idea dell’Unità tra le varie fazioni, “unità del paese” la chiamano loro. Anche se ormai le fazioni sono ridotte a due: i pasdaràn e un piccolo settore di tecnocrati “moderati” appunto, che però contano sempre meno. I pasdaràn hanno concentrato nelle proprie mani praticamente tutte le leve del potere, come dimostra la crescente presenza di loro esponenti al governo. In un certo senso oggi, quindi, la posizione di Khamenei ricorda quella del re di Thailandia, una figura ormai simbolica che di fatto funge da una copertura al governo dei militari. A questo bisogna aggiungere che il sistema politico iraniano fa acqua da tutte le parte. Come hanno dimostrato anche i recenti eventi dello scontro con Israele ci sono infiltrazioni ovunque e non solo israeliane, ma anche cinesi e di altri paesi, con conseguenze pesanti in termini di sicurezza. Il capo delle forze al Quds dopo l’uccisione di Nasrallah è scomparso per un mese. Ora è ricomparso, ma non fa più dichiarazioni. Un caso emblematico.
LETTURE Altri comunismi
GIANLUCA PACIUCCI*
Gabriele Mastrolillo – Marion Labeÿ (a cura di), Altri comunismi italiani. Dissidenze e alternative al PCI da Livorno al Sessantotto, Accademia university press-Historia magistra, Torino, 2024, pp. 297
Il libro collettaneo Altri comunismi italiani è un contributo di grande valore scientifico che va a illustrare vicende anche poco note della storia dei comunismi italiani tra il 1921 e il 1968. Mastrolillo e Labeÿ scrivono, a pagina IX della “Presentazione”, che il volume “analizza principalmente il contenuto della critica mossa alla linea del partito [il Partito Comunista d’Italia, dal 1943 Partito Comunista Italiano, ndr] in un arco cronologico ampio ma che non esaurisce tutta l’esperienza del comunismo italiano”. Il 1921 è l’anno che segna la nascita ufficiale del comunismo in Italia; il 1968 è un ulteriore “anno spartiacque” (pag. XV). Darsi dei limiti cronologici così chiari, permette di ragionare su un periodo ben preciso di inizio, con tutte le evoluzioni, involuzioni e svolte che seguirono: nella storia della rappresentanza politica delle classi oppresse tra il ’21 e il ’68 cambiò ogni cosa. Sempre nella “Presentazione” viene proposta una riflessione sulla terminologia usata: dissenso, innanzitutto (e il suo termine opposto, “consenso”); e dissidenza (eterodossia/eresia, stessa famiglia di parole), ma quasi verrebbe da aggiungere dissidio (anche interiore) perché ogni azione produce entusiasmi, lacerazioni e urla quasi senza barriere tra pubblico e privato. Le vite delle e dei protagonisti di queste vicende vengono travolte da scelte radicali, autonome, quasi mai silenziose. I dissensi/dissidi sono politici ed esistenziali. Sono poi i rapporti di forza a definire cosa siano ortodossia ed eterodossia.
Nell’ottima introduzione al volume, scritta da Eros Francescangeli, dal titolo “Orizzonti rossi. Gli altri comunismi tra storia tra storia storiografia: definizioni, confini, genealogie, segmenti e periodizzazioni”, si torna a ragionare sulla terminologia (altro come difforme/non conformista/eretico/apostatico/alternativo “al comunismo ortodosso”, a pag. 7); e si discute delle fonti: “…dinamiche di tipo manicheo (ortodossia versus eterodossia) emergono chiaramente dallo studio delle fonti interne e sono ben evidenziate nelle ricostruzioni storiche (…) E qui vorrei segnalare un problema: lo scarso utilizzo delle fonti “altre” e, in particolare, di quelle “nemiche”…” (pag. 7): ne consegue l’invito a servirsi anche di fonti quali i “documenti prodotti dalle strutture investigative dello Stato (o comunque in loro possesso) (…) ma anche il materiale intercettato clandestinamente oppure sequestrato durante “retate” e perquisizioni…”, materiale che non sempre si trova negli archivi, pur ricchissimi, “dei movimenti e delle organizzazioni considerate” (p. 8). Tutte queste osservazioni, nell’anno in cui è stata meritoriamente ripubblicata l’incompiuta e postuma Apologia della storia o Mestiere di storico di Marc Bloch (Feltrinelli, 2024 – prima pubblicazione 1949, pp. 459 – a cura di Massimo Mastrogregori), insieme ai contributi dei singoli studiosi e studiose, sono un’apologia della storia nella pratica, sono una sua difesa contro l’utilizzo sistematico di notizie non verificate, di documenti artefatti o strumentalmente interpretati, di ricerche ideologicamente indirizzate e capaci solo di produrre etichette stigmatizzanti (pensiamo, ad esempio, all’aberrante diffusione della parola negazionismo) al servizio dei potenti di turno. In Altri comunismi c’è vera storia, fatta con passione e rigore.
Da quale stagione politica si può parlare di eterodossia e di ortodossia, rispetto al PCd’I? Probabilmente dalla fine degli anni Venti, in situazioni però maturate già negli anni precedenti, con le espulsioni da quel partito di Tasca, poi di Leonetti, Tresso, Ravazzoli, Gavassano, Recchia; con il caso Silone e con quello, ancora più epocale, di Trotckij, etc. La formazione di una sempre più rigida ortodossia (la vittoria di Stalin e la conseguente cancellazione/eliminazione, anche fisica, dell’opposizione interna) genera necessarie eterodossie. La stalinizzazione del Partito-Stato fa crescere dissensi ed eresie che però ritengono di essere ritorno alle origini e vera interpretazione del verbo (leninista, gramsciano, etc.) La struttura del partito togliattiano si rafforza negli anni, elaborata a partire dei capisaldi della fedeltà a Mosca, del ruolo dei comunisti durante la Resistenza e della nascita del partito nuovo in una sintesi di stalinismo e di via italiana al socialismo (Costituzione italiana e democrazia progressiva). Se potente, comunque la si voglia interpretare, è stata questa costruzione, altrettanto dobbiamo dirlo delle forme assunte dal dissenso: esso coinvolse da subito alcuni protagonisti della fondazione del PCd’I e dei suoi primi anni di vita (Bordiga, Tasca), per ampliarsi all’articolata galassia trockijsta e confrontarsi con particolari situazioni locali (il Partito Comunista di Sardegna, ad esempio, oppure il Partito Comunista della Regione Giulia); per estendersi poi al secondo dopoguerra, anche sulla scia del contrasto micidiale tra Stalin e Tito (centrali diventano, in Italia, figure come quelle di Magnani e Cucchi); e infine, negli anni Sessanta, diventare marea (orda d’oro la definirono Balestrini e Moroni) con la nascita, e a volte anche la rapida scomparsa, di numerosissimi gruppi (nel libro si analizzano le vicende di Lotta Comunista, “probabilmente l’unica formazione comunista risalente agli anni Sessanta ancora attiva” – pag. 217, il caso del “manifesto” e quello di Potere Operaio). Di tutto ciò si occupano i diversi saggi contenuti nel libro, con lacune confessate dai curatori: si notano “l’assenza di un contributo inerente al bordighismo nel periodo interbellico e di uno sulla genesi del maoismo italiano” (pag. XV), lacune dovute a motivi contingenti e che nulla tolgono alla qualità di quest’opera.
Scegliendo di citare alcuni contributi, faremmo un torto a quelli che verrebbero a essere trascurati: in realtà tutti i testi qui raccolti sono di alto valore e aprono strade di ricerca capaci di far capire la complessità e la ricchezza di una storia che solo la stupidità del presente può ridurre a patologia o a ottuso fanatismo. Il passato, e soprattutto quello del mondo comunista, viene infatti visto, dal pensiero ora egemone, come una lunga sequenza di orrori, eventualmente da parodiare, ma forse ancor più da abrogare da parte dei nuovi custodi di altre ortodossie (iperliberiste, reazionarie, para-fasciste). Il volume che abbiamo tra le mani è una protesta contro quest’uso del passato: protesta che si fa ricerca in archivi, elaborazione critica delle fonti e profonda, profondissima divulgazione strettamente legata all’attività scientifica e alla protezione dei luoghi di questo lavoro (istituti, riviste, biblioteche, etc.) A questo proposito permettete un ringraziamento finale a chi ha curato questo volume, e cioè ai giovani storici Gabriele Mastrolillo (che da qualche mese, oltre a ricoprire ruoli accademici, è direttore scientifico dell’Istituto Regionale per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea nel Friuli-Venezia Giulia) e Marion Labeÿ (dottoressa di ricerca in Storia contemporanea presso l’Université Paris-Cité e l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata); e a Patrick Karlsen (storico affermato, docente universitario e presenza attiva a Trieste – suo, tra l’altro, l’ottimo Vittorio Vidali. Vita di uno stalinista 1916-1956, del 2019). Altrettanta gratitudine va alle edizioni BHM, “Biblioteca di Historia Magistra” che, leggiamo nella terza di copertina, affiancano “la Rivista [Historia magistra, appunto, diretta da Angelo d’Orsi, ndr] all’insegna della storia critica”. Ce n’è bisogno come del pane (e delle rose): bisogno di storia critica, e di storia e di critica viste separatamente ma unite dall’intervento civile e politico, nel senso più nobile del termine (alla Marc Bloch), nella realtà in cui siamo.
*Le recensione è una versione riveduta di quella uscita su Il Lavoratore di Trieste (Ottobre 2024). Ringraziamo l’autore e Il Lavoratore per averci permesso di pubblicarla.