Lo chiamano ‘welfare’ e sta diventando la strategia prediletta dalle aziende per pagare i dipendenti, nello specifico alcune voci presenti in busta paga come gli aumenti contrattuali e i premi di produttività, e allo stesso tempo per ridurre il costo del lavoro. In che modo? Invece di versarle direttamente ai propri dipendenti quelle somme vengono erogate a fondi pensione, sanità integrativa e altri servizi integrativi rispetto al welfare pubblico oppure vengono ‘pagati’ ai lavoratori offrendo loro pacchetti di servizi che vanno dall’asilo dei bambini alla palestra fino addirittura ai ticket per la benzina. Le aziende ci guadagnano perché su quelle somme non pagano le tasse. Ma i lavoratori? PuntoCritico ha raccolto dati e testimonianze per provare a capire questo nuovo scenario e le conseguenze di questa trasformazione.
A giudicare dai dati sull’adesione ‘volontaria’ (si tenga presente questo termine) a questi servizi i lavoratori non ne sembrano entusiasti. Tanto che le organizzazioni di categoria degli imprenditori e il sindacato stanno utilizzando il grimaldello della contrattazione nazionale per finanziare fondi pensione e mutue integrative prelevando i soldi alla fonte, cioè direttamente dalle buste paga. Ma non è solo una questione economica. Per il sindacato fondi pensione, mutue integrative ed enti bilaterali stanno diventando, insieme a CAF e patronati, il volano di un nuovo modello organizzativo e un’alternativa alla crisi che lo sta investendo. Un sindacato che si sposta dalla rappresentanza e dalla contrattazione verso la gestione di pezzi di sanità, di previdenza, di ammortizzatori sociali, ma non solo.
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